Mobile health e app: l’orizzonte si avvicina

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È innegabile che uno dei maggiori benefici dell’avvento di internet in ambito sanitario è la possibilità di rendere meno distanti chi ha bisogno di cure e chi le sa fornire. Qualcosa che oggi è ancora una sfida, un divenire, più che qualche cosa di compiuto. La parola chiave di questo numero è “Orizzonti” e in questo senso il filo rosso che ha determinato la scelta delle app qui proposte riflette uno dei principali orizzonti della cosiddetta mobile health (m-health): permettere ai medici di arrivare dove altrimenti non sarebbe possibile, non solo in termini di distanza chilometrica. Una prospettiva non individuale, ma di salute collettiva, nell’ottica di un accesso alle cure sempre più uguale.

Qui di seguito proponiamo 5 tentativi di accorciare questo “orizzonte”, fra app e infrastrutture digitali, alcune sviluppate in Italia.

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Cingolani ce l’ha fatta: parte Human Technopole

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Il grande progetto per un “Umanesimo” tecnologico italiano ha levato ufficialmente le ancore. Oggi a Milano il Premier Renzi presenta ufficialmente la versione definitiva di Human Technopole, che riceverà un finanziamento di circa 150 milioni di euro l’anno per 10 anni, e che sorgerà nei luoghi di Expo Milano, coinvolgendo 1.500 persone in 30 mila metri quadri di laboratori.

Il grande polo scientifico tecnologico milanese che si focalizzerà sulla comprensione della correlazione fra nutrizione, genomica, invecchiamento e aspettativa di vita, nella direzione di quella che viene definita “medicina di precisione”. L’obiettivo generale del progetto è infatti quello di utilizzare la genomica, i Big Data e le nuove tecniche di diagnostica per sviluppare approcci personalizzati, sia mediche sia nutrizionali, per affrontare in particolare tumori e malattie neurodegenerative. E per metter capo a nuovi approcci di nutraceutica e di biotecnologie applicate all’agricoltura.

Il progetto si propone di realizzare, ogni anno, circa 2.000 screening genomici di individui sani per la prevenzione di malattie; altri 2.000 screening genomici di paziente con tumori per mettere a punto una stratificazione e individualizzazione delle cure; infine 1.000 screening genomici post mortem di pazienti con malattie neurodegenerative e 1.000 screening di biomaracatori per scopi diagnostici.

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Un ricercatore su due invecchia restando precario

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Sono circa 10.160 i giovani che hanno conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2013, ma ben pochi sono quelli destinati a fermarsi definitivamente all’università. A elaborare la triste profezia è l’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), che in uno studio pubblicato nel 2014 afferma che il 96,6% degli attuali assegnisti di ricerca italiani rilevato nel 2013, verrà alla fine espulso dal sistema accademico.
In altri termini, solo il 3,4% di loro sarà reclutato come ricercatore a tempo determinato di tipo b (RTDb) per essere destinato a diventare ricercatore universitario (RU). Un trend in peggioramento, dal momento che solo un anno prima, rileva sempre ADI, il tasso di espulsione sfiorava il 93%. Persone che una volta fuori dal mercato accademico si ritroveranno senza alcuna forma di copertura assistenziale.

Il punto è che questi 20894 assegnisti (dato Miur relativo al 2013) sono un numero tutt’altro che esiguo rispetto al totale di chi bazzica le cattedre e i laboratori universitari, e l’unico in crescita dal 2008, quando se ne contavano poco più di 12mila. Al contrario, secondo l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) i ricercatori a tempo indeterminato sono passati dai 25.569 del 2008 ai 23.746 del 2013.
Come rileva Roars: “Ci aspettiamo un’ulteriore riduzione del numero dei docenti universitari di ruolo nella misura di circa 1.600 unità in meno all’anno (-3,2%) per i prossimi tre anni” si legge. “Viceversa è pressoché impossibile in questo momento avanzare previsioni attendibili sulla ripartizione del personale docente di ruolo nelle tre fasce, fatta salva l’inevitabile riduzione della fascia dei ricercatori di ruolo per effetto della messa a esaurimento”. Insomma: le premesse per chi si accinge a iniziare un dottorato di ricerca con lo scopo di rimanere in ambito accademico, sono sempre meno incoraggianti.
Ben la metà del personale accademico italiano è infatti composto da figure “atipiche” precarie: oggi solo la metà di chi fa ricerca in Italia è di ruolo. Secondo un calcolo ADI, il 13% è costituito da professori ordinari, il 15% da associati e il 22% da ricercatori.
Un quarto del totale è rappresentato dai dottorandi, il 15% dagli assegnisti e il restante 10% dai collaboratori ai programmi di ricerca e dai ricercatori a tempo determinato a e b, quelli cioè introdotti con la legge Gelmini (240/2010) che sono andati a sostituire la vecchia posizione di ricercatore universitario. Se volgiamo lo sguardo al comparto didattica poi, anche i numeri sui docenti a contratto nel 2013 (dati Miur) parlano chiaro.

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Le start up innovative crescono secondo Istat e Infocamere, ma la presenza femminile è ancora bassa

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Le recenti statistiche Istat sono chiare su questo punto: nonostante qualche nota positiva, per le imprese italiane la crisi non è finita, tanto che a marzo 2015 la disoccupazione è aumentata dello 0,3% rispetto ad aprile dell’anno prima. Tuttavia, se da un lato le aziende italiane stentano a risollevarsi, la maggior parte di chi investe in startup innovative, punta proprio sul settore dei servizi all’industria. Ricerca e sviluppo in testa. I numeri del fenomeno sono chiaramente illustrati nel blog di StartUpItalia.

Ma ci sono altri dati che si possono estrapolare in questa situazione. Intanto sono 3711 le startup innovative nei primi 3 mesi del 2015, il 16,7% in più rispetto a dicembre 2014, e la fetta più grossa, circa 3 nuove imprese su 4, ha scelto di occuparsi appunto di servizi per le imprese: produzione di software e consulenza, attività e servizi per la formazione, e ricerca e sviluppo.
Un bell’incremento questo degli ultimi mesi che ha coinvolto 192.047.966 € di capitale sociale, circa 52 mila euro a impresa, il 25% in più rispetto a dicembre 2014. Nonostante questo però le startup innovative rappresentano una fetta sempre minuscola dell’universo imprenditoriale italiano: lo 0,25% delle società di capitale italiane, che toccano oggi quasi quota 1,5 milioni.
La maggiore densità di startup innovative sul totale delle imprese di capitale si concentra nelle province del centro-nord, Trento, Trieste e Ancona in testa.

Sono gli ultimi dati forniti da InfoCamere, aggiornati al 6 aprile scorso. Un dato che emerge prepotentemente sugli altri è lo spiccato orientamento al settore Ricerca e Sviluppo. Secondo i dati InfoCamere, ben il 18,3% delle società di capitali che operano nelle attività di R&S sono startup innovative, una percentuale che appare significativa se pensiamo che esse rappresentano in realtà lo 0,25% del totale delle società di capitale italiane. La ragione di questo dato però è presto detta. Secondo quanto riportato nel decreto legge 18 ottobre 2012 n. 179, una startup innovativa per poter essere definita tale deve far sì che le spese in ricerca e sviluppo siano uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione.

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