I ragazzi del 1995, fra studio e lavoro

Giovani e lavoro: ma come stanno le cose davvero? AlmaLaurea ha recentemente pubblicato i risultati di un sondaggio che ha coinvolto un’ampio campione di ragazzi diplomati nel 2014 – cioè nati nel 1995 o negli anni appena precedenti – per capire oggi, a 22 anni, com’è la loro vita, fra chi studia e chi (anche) lavora.

Anzitutto un dato: a tre anni dal diploma lavora circa un giovane su 3 (il 27%). Un altro 18% studia e lavora e il 44% di loro studia solamente. Complessivamente il 68% delle ragazze si è iscritto all’università, contro il 57% dei maschi. Nel dettaglio nel 2017 lavora il 60% dei diplomati in un istituto professionale, il 42% di chi ha frequentato un istituto tecnico e il 7,6% dei liceali.

Coniuga invece università e lavoro (tendenzialmente piccoli lavoretti) un liceale su 4 (il 24%), un diplomato tecnico su 6 (il 13%) e un diplomato professionale su 10 (il 9,2%).

Nel complesso dei diplomati nel 2014, la fetta più grossa dei contratti – 1 su 3 – è “non standard”, ovvero contratti a chiamata e qualsiasi contratto a tempo determinato, in ugual misura fra maschi e femmine. Il 15% di loro ha contratti “formativi”, mentre un altro 15% lavora senza nessun contratto, e qui il gap di genere si fa sentire: non ha contratto il 23% delle ragazze che lavora contro l’11% dei maschi. E va precisato che a tre anni da diploma le occupate sono di più rispetto agli occupati: 1300 femmine e 1255 maschi fra chi ha risposto al sondaggio. Complessivamente sono di più i ragazzi che lavorano soltanto (32% contro il 22% delle ragazze), ma sono di più le ragazze che studiano e lavorano rispetto ai maschietti (23% delle ragazze contro 13% dei ragazzi).

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La fuga dei cervelli fa bene alla scienza

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Pare sempre più evidente che le scelte politiche internazionali vadano nella direzione opposta rispetto a quella indicata dalla scienza. I recenti sconvolgimenti politici – dall’inasprimento dei divieti di entrata negli Stati Uniti di Trump alla Brexit – minacciano infatti di avere un effetto frustrante sulla collaborazione e sulla mobilità dei ricercatori. Eppure, proprio studiando benefici e svantaggi della mobilità degli scienziati nel mondo in termini di qualità e quantità della ricerca, emerge che il loro lavoro riesce ad avere un maggiore impatto nella società, proprio quando questi ultimi sono liberi di cambiare centro di ricerca, paese, addirittura continente.

Chi viaggia?

È quello che emerge da uno studio pubblicato su Nature, che ha esaminato 14 milioni di documenti provenienti da quasi 16 milioni di singoli individui, pubblicati fra il 2008 e il 2015. Circa il 96% di questi 16 milioni di ricercatori ha avuto solo un paese di affiliazione (sono stati cioè classificati come “non mobili”), mentre il 4% (più di 595.000 ricercatori) erano mobili – il che significa che avevano avuto più affiliazioni durante il periodo esaminato. Lo studio considera come paese di “origine” non la nazione di nascita del ricercatore ma il paese dichiarato nell’affiliazione del ricercatore alla pubblicazione del primo articolo.

Anche la mobilità però si differenzia. Il 27,3%, (162,519 ricercatori) si sono rivelati mobili nel senso che hanno iniziato a pubblicare in un paese e poi si sono spostati in un altro interrompendo le relazioni accademiche con il paese precedente. Il restante 72,7% (433,375 ricercatori) invece è risultato composto da quelli che vengono definiti nello studio come “viaggiatori”, studiosi cioè che mantengono una relazione con il loro paese (o paesi) di origine scientifica per tutta la loro carriera, raccogliendo più affiliazioni internazionali.

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ERC Consolidator Grant: tanti Italiani ma poca Italia

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Seicentocinque milioni di euro per 314 progetti di ricerca: questi i numeri per il 2016 dei Consolidator Grants di ERC, rivolti a ricercatori con 7-12 anni di esperienza post PHD per un massimo di 2 milioni di euro ciascuno, dove hanno trovato particolare attenzione le nuove terapie rigenerative per le malattie cardiache, i nuovi algoritmi per rendere le reti di computer sempre più resilienti, e le ultime frontiere nell’ambito della ricerca psicologica. Lo rende noto la stessa agenzia, in un comunicato di questa mattina, dal quale è possibile estrapolare qualche statistica.

Per l’Italia però c’è poco spazio, dal momento che ci collochiamo in ottava posizione per numero di progetti finanziati, più o meno in linea con gli ultimi anni. Ci portiamo a casa 14 progetti vincitori, suddivisi equamente fra scienze della vita, scienze fisiche e le cosiddette Humanities. Il Regno Unito se ne porta a casa 58 (alla faccia della Brexit!), la Germania 48, la Francia 43, l’Olanda 29, la Spagna 24.

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Collaborazioni internazionali: ecco la classifica di Nature. E l’Italia primeggia nella fisica

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La collaborazione internazionale fra centri di ricerca oltre a essere senza dubbio un punto di forza per un paese, ci fornisce il polso della situazione su diversi aspetti della ricerca stessa, fra cui quello geopolitico, cioè capire come si stanno muovendo le forze in gioco sulla plancia mondiale. Oltre a dirci se come paese stiamo facendo abbastanza. Per fare un esempio, dai dati emerge che gli Stati Uniti e la Cina stanno hanno all’attivo numerose collaborazioni nell’ambito delle scienze ambientali e del global warming.

La rivista Nature ha pubblicato in questi giorni una piattaforma ricca di dati, navigabili in modo semplice e interattivo, che raccontano il mondo delle collaborazioni scientifiche fra i diversi paesi del mondo, proponendo una classifica delle 100 istituzioni più “virtuose” in questo senso, secondo il Nature Index, che misura le occorrenze delle affiliazioni degli autori di articoli pubblicati sulle 68 maggiori riviste scientifiche mondiali fra il 1 settembre 2015 e il 31 agosto 2016.

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