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In due anni di pandemia si sono susseguiti diversi studi locali che avevano lo scopo di intercettare e quantificare la presenza di SARS-CoV-2 nelle acque reflue urbane italiane. Il 14 aprile 2022 è uscito il primo rapporto nazionale dell’IStituto Superiore di Sanità che copre il periodo 1 ottobre 2021-31 marzo 2022 e che raccoglie i dati di 19 regioni/province autonome su 21, per un totale di 168 impianti di trattamento delle acque reflue in tutta Italia e 3.797 campioni analizzati, che rappresentano 31 milioni di italiani. I dati provengono da 12 ARPA regionali, da 8 istituti zooprofilattici, da 7 laboratori di ricerca sulle acque reflue e da enti di ricerca e università (elenco completo delle città coinvolte a pagina 6 e seguenti).
Le due regioni che non stanno raccogliendo dati in merito sono Calabria e Sardegna. La Regione Calabria avvierà l’analisi sistematica nell’aprile 2022, mentre la Regione Sardegna non ha ancora fornito un piano operativo per attivare la sorveglianza.
Risultato: fra gennaio e febbraio nella maggior parte delle regioni il 100% di questi campioni ha mostrato la presenza di RNA di SARS-CoV-2, rispecchiando le due onde Omicron registrate.
Qual è il senso di cercare il virus nelle acque reflue? La diffusione fecale di SARS-CoV-2 da parte di individui infetti (sintomatici ma anche asintomatici!) è nota sin dall’inizio della pandemia. Può essere utile avere questo dato come sistema di allerta precoce capace di prevedere focolai di COVID-19 giorni prima dei casi clinici, come strumento in grado di stabilire tendenze dei focolai in corso, per stimare la prevalenza delle infezioni, e per studiare le differenze genetiche di SARS-CoV-2. Tuttavia, la ricerca sull’analisi dei dati è ancora in fase di sviluppo per definire con precisione i tempi sufficienti per intercettare un possibile focolaio prima che si manifesti fra la popolazione (studi internazionali parlano di un range che va da 4 a 7 giorni).