La nota rivista scientifica Nature ha aperto il 2023 con un articolo provocatorio, dove gli autori, avanzano l’ipotesi che la scienza degli ultimi anni sia meno “rivoluzionaria” rispetto a quella dei decenni precedenti. Il termine inglese che si usa qui, e in genere anche in Italia oramai è distuptive, un’espressione presa a prestito dall’economia. Nel business, un’innovazione “disruptive” è quella che riesce a creare un nuovo mercato o è talmente potente da riuscire in poco tempo, iniziando dal basso, a stravolgere un mercato esistente. In ambito scientifico si intende con questa espressione un’innovazione – intesa come un insieme di pubblicazioni scientifiche in un certo campo – che imprimono al proprio campo una forza tale da incidere sulla direzione della ricerca. Secondo la capacità di “disruption” della scienza è crollata negli ultimi anni.
Non si tratta di una boutade, di una provocazione da inizio anno. Il tema è interessante e sta suscitando un certo dibattito all’interno della comunità scientifica.
Spoileriamo subito: in realtà quello che è emerso è che sebbene la percentuale di ricerche dirompenti sia diminuita in modo significativo tra il 1945 e il 2010, il numero di studi altamente dirompenti è rimasto pressoché invariato. Insomma: non abbiamo meno rivoluzione scientifica, ma semmai più scienza che consolida, accanto a quella “distuptive”. Si fa più scienza, rispetto a quarant’anni fa, si pubblica infinitamente di più. Oltre al fatto che negli anni Quaranta e Cinquanta veniva considerato “rivoluzionario” qualcosa che forse oggi giudicheremo un “passo in avanti significativo”. È interessante per esempio che gli autori abbiano analizzato i verbi più comuni usati nei paper scientifici. Mentre la ricerca negli anni Cinquanta/Settanta usava più spesso parole che evocavano la creazione o la scoperta come “produrre” o “determinare”, quella condotta negli anni 2010 era più probabile che si riferisse a progresso incrementale, usando termini come “migliorare”.
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