Collaborazioni internazionali: ecco la classifica di Nature. E l’Italia primeggia nella fisica

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La collaborazione internazionale fra centri di ricerca oltre a essere senza dubbio un punto di forza per un paese, ci fornisce il polso della situazione su diversi aspetti della ricerca stessa, fra cui quello geopolitico, cioè capire come si stanno muovendo le forze in gioco sulla plancia mondiale. Oltre a dirci se come paese stiamo facendo abbastanza. Per fare un esempio, dai dati emerge che gli Stati Uniti e la Cina stanno hanno all’attivo numerose collaborazioni nell’ambito delle scienze ambientali e del global warming.

La rivista Nature ha pubblicato in questi giorni una piattaforma ricca di dati, navigabili in modo semplice e interattivo, che raccontano il mondo delle collaborazioni scientifiche fra i diversi paesi del mondo, proponendo una classifica delle 100 istituzioni più “virtuose” in questo senso, secondo il Nature Index, che misura le occorrenze delle affiliazioni degli autori di articoli pubblicati sulle 68 maggiori riviste scientifiche mondiali fra il 1 settembre 2015 e il 31 agosto 2016.

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Il coinvolgimento dei pazienti nella ricerca. Stiamo ancora inventando la ruota?

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L’idea di coinvolgere il paziente nei processi decisionali che riguardano l’assistenza sanitaria e all’interno della ricerca clinica è diventato una sorta di mantra negli ultimi anni. La prospettiva è quella di una salute pubblica inclusiva, che fonda le sue radici sul dialogo fra i diversi stakeholder, per modulare linee di ricerca le cui priorità siano frutto di un processo anche bottom-up. Quasi tutti gli studi che sono stati pubblicati negli ultimi anni fanno riferimento alle potenzialità di questo approccio, sia per il paziente stesso che si sentirebbe parte attiva del processo – “empowered”, come si ama dire in letteratura – sia per i ricercatori, che sarebbero così coadiuvati nella costruzione di linee di ricerca che siano il più possibile aderenti alla pratica clinica e alle esigenze del malato.

Coinvolgere i pazienti nella pianificazione e nell’esecuzione della ricerca significa migliorarne la traduzione in pratica clinica. Dal punto di vista dei ricercatori si parla, per esempio, di coinvolgere i pazienti nella determinazione dei criteri di raccolta dei dati, nell’identificazione delle priorità all’interno di una certa linea di ricerca, della migliore valutazione dell’applicabilità di un servizio all’interno della vita quotidiana dei malati. E ancora, nel fornire agli stessi malati risorse appropriate attraverso la semplificazione dei messaggi e la caratterizzazione dell’audience, e valutando l’incisività delle linee guida.

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Cosa succede se la ricerca british esce dall’Europa?

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Forse le parole più azzeccate su Brexit e ricerca scientifica sono quelle di unarticolo publicato dal biologo Stephen Curry sulle pagine del Guardian lo scorso aprile che titolava “The scientific impact of Brexit: it’s complicated”, secondo cui attualmente è prematuro elaborare scenari sulla ricerca per il dopo Brexit. All’indomani del risultato tanto temuto e che sta sconvolgendo l’Europa, le reazioni della comunità scientifica sono infatti differenziate e contraddittorie.

UN PO’ FUORI UN PO’ DENTRO…

Secondo quanto sottolinea Curry, l’uscita dall’Europa non significherà automaticamente un problema nell’accesso ai canali di finanziamento alla ricerca dell’Unione Europea. Il Regno Unito potrebbe accedervi ugualmente come vi accedono paesi come la Norvegia, la Svizzera e Israele, che pure non fanno parte dell’UE. Si tratta di paesi che hanno performance eccellenti nella ricerca scientifica, sia per quanto riguarda il successo nelle application per ottenere i grant: in media in questi paesi il tasso di finanziamenti europei per la ricerca per abitante è più alto che nel Regno Unito. Certo – precisa sempre Curry – le ragioni di questo successo non sono dovute soltanto alla non appartenenza all’Unione ed è per questo che la valutazione unidimensionale della questione Brexit è condannata a essere parziale. Il successo di paesi come Svizzera e Israele è dovuta probabilmente anche al fatto che questi paesi investono percentuali del loro PIL in ricerca scientifica molto più alte rispetto alle media europea e soprattutto rispetto a quanto attualmente investe il Regno Unito (rispettivamente 2,8 e 4,4% contro 1,9 e 1,7%).

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La ricerca pubblica in Italia: quali risorse?

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Nella scorsa puntata abbiamo visto come se la cavava l’università italiana quanto a numero di iscritti, corsi di studio e personale docente, secondo l’ultimo report ANVUR, pubblicato proprio in questi giorni.
L’università però è sì didattica, ma anche ricerca. Il primo dato che emerge è una sostanziale stabilità della spesa in ricerca e sviluppo nel nostro Paese. La quota di Pil che investiamo in R&S è il 1,31%, ancora lontana dalla media dei Paesi europei (1,92 per UE 28) e dei Paesi OCSE (2,35%). Insomma, se utilizziamo questo come parametro, siamo meglio solo di Russia, Turchia, Polonia e Grecia. Inoltre, anche se consideriamo i finanziamenti del MIUR sia come ricerca corrente che finalizzata, i dati riportati da ANVUR sono poco confortanti. Stabile invece il personale dipendente di enti pubblici ma fortemente in calo il numero di posti di dottorato: un quarto in meno nell’ultimo anno, complice anche l’introduzione del regolamento che prevede l’obbligo che il 75% dei posti di dottorato sia con borsa di studio.

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