In ufficio l’inquinamento atmosferico riduce la produttività

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Le evidenze scientifiche lo dicono da anni: la salute della popolazione passa anche dal lavoro, inteso sia come reddito, che determina i comportamenti e lo stile di vita più o meno sano, che come salute sul luogo di lavoro, che comprende per esempio l’esposizione a sostanze inquinanti, a stress, a carichi di lavoro logoranti e via dicendo.
All’interno di questa ragnatela il fattore produttività gioca un ruolo primario, dal momento che in moltissimi casi a esso sono legati i volumi di reddito dei lavoratori: se produci quanto prefissato allora puoi continuare a farlo, se non ci riesci il tuo posto può essere facilmente ceduto a qualcun’altro. È il caso questo per esempio dei lavoratori di call center – ma non è certo questo l’unico settore che esaspera questo sistema – dove la produttività si basa sulla vulnerabilità dei lavoratori, finendo per accrescerla.
Quello che evidenzia un recente working paper pubblicato dal National Bureau of Economic Research statunitense è che l’inquinamento agisce anche sulla produttività delle persone, aumentandone appunto la vulnerabilità. La ricerca in questione ha coinvolto due call center in Cina, uno a Shanghai e l’altro a Nantong, incrociando i dati sulle concentrazioni di inquinanti e quelli sulla produttività dei lavoratori, evidenziando come livelli più elevati di inquinamento atmosferico sembrino associati a una diminuzione della produttività in termini di riduzione del numero di chiamate che i lavoratori completano ogni giorno, in relazione all’aumento del numero di pause effettuate.

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La povertà? Fa perdere due anni di vita

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Lo ha messo in luce proprio in questi giorni un sondaggio condotto da Eurispes: quasi la metà delle famiglie italiane non arriva a fine mese e per una famiglia su 4 un problema medico è un problema enorme per il portafoglio. Un primo risultato “intermedio” di questo fenomeno lo ha mostrato il Censis non più di sei mesi fa: 11 milioni di italiani nel 2016 hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie nell’ultimo anno per ragioni economiche, 2 milioni in più rispetto al 2012. Il risultato finale di tutto questo è facilmente intuibile: a parità di malattia, chi guadagna meno muore prima. Nei paesi “ricchi”, fra cui anche l’Italia, sarebbero infatti 2,1 gli anni di vita persi fra i 40 e gli 85 anni, a causa delle scarse condizioni socioeconomiche. Un rischio paragonabile a quello dei più noti fattori di rischio: fumo, diabete, obesità, cattiva alimentazione e scarsa attività fisica. Nell’era del lavoro full-time pagato a suon di voucher a 7,50 l’ora senza alcuna forma di tutela, stage a 400 euro al mese, co.co.co e contratti a chiamata, è uno scenario che non possiamo permetterci di ignorare.

È quello che emerge da uno studio pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista The Lancet  che presenta i primi risultati di Lifepath, un progetto dell’Unione Europea, nato con lo scopo di fornire dati aggiornati, significativi e innovativi sulla relazione fra disuguaglianze sociali e diseguaglianze di salute.

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Meno salute, meno lavoro

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Salute e lavoro. Su questo apre il corposo rapporto OCSE sulla salute 2016 Health at a Glance 2016. Fra i 50-59 enni europei, i malati cronici – dove con questo termine si intendono anche gli obesi e i forti fumatori – hanno tassi di disoccupazione considerevolmente più alti della media. Presentano inoltre una minore produttività, cioè più giorni di malattia rispetto agli altri, che si traduce in minori guadagni e – come insegna Michael Marmot nel suo ultimo libro – minor status.

I dati elaborati da OCSE provengono dal progetto SHARE (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe), una banca dati multidisciplinare e transnazionale che copre 27 paesi, e che raccoglie dati sulla salute, sullo status socio-economico e sullele reti sociali e familiari di circa 123.000 individui di oltre 50 anni.

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Rapporto GreenItaly 2016: in aumento le imprese “verdi”

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Il quadro che emerge dal rapporto GreenItaly 2016, redatto da Unioncamere e dalla Fondazione Symbola, giunto oramai alla settima edizione, è complessivamente positivo. Un’impresa su 4 dal 2010 al 2015 (il 26% del totale) ha investito in tecnologie green (o intende farlo nel 2016) per ridurre l’impatto ambientale, per il risparmio energetico e per una riduzione di CO2. Un terzo dell’industria manifatturiera (con particolare impeto – si legge – nell’industria petrolchimica e della gomma e plastica – e un quarto delle imprese di costruzioni). 134 mila imprese (il 9,3% del totale) dichiara di voler investire nel 2016, anche se a ben vedere si tratta di un trend in crescita dal 2013, ma in calo rispetto al 2011.

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