Una popolazione più sana? Meno spesa per l’assistenza sanitaria e di più per i servizi sociali

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APPROFONDIMENTO – Michael Marmot, epidemiologo noto a livello mondiale, nel corso delle sue ricerche le ha dato addirittura un nome: “Status Syndrome”. Chi è più in alto nella scala sociale, percepisce una libertà di controllo sulle proprie azioni e nel concreto vive più a lungo rispetto a chi si trova a vivere uno status socio-economico peggiore nel corso della propria vita. Per citare un detto Newyorkese “Più piccola è la taglia del vestito, più grande l’appartamento”, ovvero – spiega Marmot – particolarmente fra le donne delle nazioni ad alto reddito, peggiore è lo stato sociale, maggiore è la prevalenza dell’obesità. La domanda da cui partì Marmot è la seguente: “Perché curare le persone e riportarle alle condizioni che le hanno fatte ammalare?” In altre parole, come eliminare lo svantaggio sociale, cioè la causa delle cause di anni persi in salute, se non addirittura di morte prematura?

Un anno fa esatto, uno studio pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista The Lancet e condotto nell’ambito del progetto Lifepath dell’Unione Europea, mostrava che nei paesi “ricchi”, fra cui anche l’Italia, le scarse condizioni socioeconomiche si tradurrebbero in 2,1 anni di vita persi fra i 40 e gli 85 anni.

Oggi un nuovo studio, questa volta canadese, pubblicato sul Canadian Medical Association Journal, evidenzia come l’aumento della spesa sociale (parliamo dei determinanti sociali della salute come il reddito, l’accesso all’istruzione, la dieta e l’attività fisica) sia stato associato a miglioramenti della salute a livello di popolazione, mentre gli aumenti della spesa sanitaria non sortirebbero alla prova dei fatti lo stesso effetto. Non solo dunque investire di più sui servizi per ridurre le disuguaglianze sociali di partenza è altrettanto importante rispetto a investire nell’assistenza sanitaria, ma addirittura produrrebbe effetti migliori in termini di salute generale della popolazione.

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Non fare figli non è una colpa, essere sottopagate sì

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In molti si sono indignati nei giorni scorsi all’uscita di alcuni dati Istat che hanno sottolineato un nuovo record per l’anno appena trascorso: quasi la metà delle donne fra i 18 e i 49 anni, cioè in età potenzialmente fertile, non ha dei figli.

Non serve dirlo, il tono con il quale la notizia è stata diffusa sui media è stato ancora una volta di sgomento giudicante: troppe donne oggi preferiscono posticipare la maternità per poter consolidare la propria posizione lavorativa dopo anni di studio, di specializzazione. Un posticipare che “spesso si traduce in una rinuncia”, ha scritto qualche esperto. Senza considerare che i figli non li fanno solo le donne ma le coppie, nella maggior parte dei casi.

Ancora una volta il messaggio fra le righe è che queste donne sono colpevoli di non aver fatto tutto ciò che avrebbero potuto fare, invece di cogliere l’occasione per parlare di lavoro e del fatto che oggi una donna con meno di 30 anni che inizia un percorso professionale da professionista guadagna il 10% in meno di un suo collega uomo. Gap che fra i 30 e i 40 anni – che per la donna non sono solo gli anni cruciali per la maternità ma anche per l’avviamento di una professione – diventa del 27%. Oggi in Italia una professionista di 35 anni guadagna un terzo in meno rispetto al suo collega di scrivania. Fra i 40 e i 50 anni il gap è ancora del 23%.

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E’ molto diverso invecchiare da ricchi o da poveri

Reblogged from Scienza in Rete

Parlare di healthy ageing, cioè di mantenimento di una buona qualità della vita in età anziana è oggi oltremodo complesso. L’aspettativa di vita della popolazione si è andata allungando, con il risultato che in paesi come l’Italia la percentuale di over 65 è molto elevata, ed è un fatto che richiede di ripensare l’organizzazione del sistema sociale del lavoro. Ci si scontra però con almeno due grosse questioni: primo, adattare la struttura del mercato del lavoro in modo che riesca a far fronte a una fetta sempre maggiore di popolazione che invecchia e, secondo, fare in modo che le persone invecchino in salute, cioè che gli anni di vita guadagnati, siano anni saniguadagnati. Si tratta di due questioni legate insieme a doppia mandata, dal momento che è necessario da un lato che chi invecchia non diventi un costo ingestibile per i sistemi sanitari nazionali, e dall’altro mantenere gli anziani in salute affinché possano continuare a contribuire al mercato del lavoro.

La strategia che i governi stanno mettendo in atto per adattare i propri sistemi all’invecchiamento della popolazione si basa infatti su quest’ultimo assunto, che si traduce nella maggior parte dei paesi in un allungamento della vita lavorativa, cioè alzare l’età pensionabile.

Il problema sotteso a questa dinamica però è che si tratta per la maggior parte dei paesi di politiche che perdono di vista un aspetto importantissimo: quello delle disuguaglianze sociali. Pensare semplicemente di allungare la vita lavorativa delle persone in modo che – auspicabilmente – riescano a usufruire successivamente di una pensione migliore in vista di una vecchiaia più agiata, è infatti un punto di vista miope. Le disuguaglianze sociali sono qualcosa che si origina lungo l’intera vita di una persona o di una comunità. Solo prevenendo l’insorgenza di eccessive disuguaglianze sociali già dall’inizio della vita lavorativa si può pensare di affrontare il tema dell’invecchiamento della popolazione in modo sostenibile.

Questo in estrema sintesi il messaggio di un recente rapporto di OCSE intitolato, per l’appunto, “Preventing Ageing Unequally”, pubblicato lo scorso 18 ottobre.

Il dato centrale del rapporto è il seguente: stando ai dati raccolti dall’OCSE negli ultimi anni il picco delle disuguaglianze di reddito riguarda la fascia d’età fra i 55 e i 59 anni, cioè la prossima generazione di pensionati. Differenze nel reddito, che si tradurranno in fortissime differenze nella qualità delle pensioni. Inoltre, i nati negli anni Sessanta sono i primi dall’inizio del Secolo breve che si ritrovano a guadagnare di meno rispetto ai nati nella generazione precedente.

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Un modello matematico della povertà rurale

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Fra le aree più povere del mondo quelle rurali hanno ancora più difficoltà ad avviare dei processi di sviluppo sostenibile. I mezzi di sostentamento dei poveri rurali sono di meno rispetto a quelli delle aree urbane, e questo anche perché l’influenza dell’ambiente sulle povere economie rurali li rende fondamentalmente diverse da quelle dei Paesi più sviluppati. Del miliardo di persone che vive sotto la linea di povertà nel mondo, la maggior parte vive in comunità rurali dove le risorse naturali diventano una spada a doppio taglio. I sistemi ecologici forniscono sussistenza, ma anche diffondono elevati tassi di malattie infettive.
Oltre il 75% delle persone che vivono in aree povere e rurali dell’Africa sub-sahariana e del sud-est asiatico muore a causa di malattie infettive. Ed è noto che la cattiva salute è a sua volta una trappola della povertà: se un contadino o il suo bestiame si ammala, l’economia del sistema peggiora. L’incapacità di guadagnare abbastanza per salvare  la propria vita o quella dei propri cari rende sempre più difficile investire per migliorare la propria condizione. Non a caso gli autori parlano in questo senso di “trappole della povertà” – poverty traps – quando cioè un circolo vizioso si autorafforza permettendo alla povertà di persistere.

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