Ecco come predire i cambiamenti climatici con maggior precisione

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Lo ha illustrato sulle pagine di Science di maggio un gruppo di ricercatori provenienti da Princeton, da Harvard e dall’Environment Defence Fund statunitense: per una valutazione il più possibile aderente alla realtà degli effetti delle alte concentrazioni di gas serra come diossido di carbonio e metano sui cambiamenti climatici è necessario sempre di più esaminare in parallelo due situazioni: lo scenario fra 100 anni e quello fra 20 anni. Prediligere, come spesso accade, lo scenario a lungo termine per la valutazione delle azioni da mettere in campo è uno sguardo che alla lunga si rivelerà miope.
I cosiddetti Global warming potentials (GWPs), l’unità di misura che esprime l’impatto di un certo gas serra relativamente all’effetto della CO2, sono diventati oggi un elemento essenziale delle politiche climatiche. Questo – si legge – nonostante si basino su un bias ben noto: i GWPs non evidenziano il gap fra gli obiettivi a breve termine e quelli a lungo termine. Lo scenario più comune, il GPW100 si focalizza infatti su una scala temporale di 100 anni, diluendo in qualche modo gli effetti a breve termine degli inquinanti climatici, ma ciò fa sì che il modello consideri anche l’effetto di inquinanti che nella realtà non sarebbero più presenti in atmosfera dopo un paio di decenni.

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Valutare l’impatto dei rischi climatici sul sistema finanziario

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L’urgenza di stimare l’impatto dei rischi climatici sul sistema finanziario è sempre più riconosciuta tra gli studiosi e professionisti. Se da ogni parte – o quasi – si invocano con urgenza politiche orientate alla sostenibilità e resilienza, in grado di arrestare il riscaldamento globale e mitigare le conseguenze che già hanno iniziato a colpire il nostro pianeta, dall’altro lato non possiamo chiudere gli occhi davanti al fatto che la finanza globale ruota anche intorno a ciò che ha creato il problema climatico, come ad esempio i combustibili fossili, dove consapevolmente o meno investitori grandi e piccoli hanno investito il proprio denaro.
In questa direzione ha lavorato un gruppo di ricercatori dell’Università di Zurigo, che su
Nature Climate Change ha pubblicato la propria metodologia per testare come l’introduzione rapida di nuove politiche climatiche stresserebbe il mercato azionario globale. «Nel nostro studio abbiamo osservato che una grossa parte dei portafogli azionari degli investitori, in particolare per i fondi di investimento e per quelli pensionistici, riguarda settori che verrebbero toccati da cambiamenti nelle politiche climatiche» commenta Stefano Battiston, uno dei ricercatori che ha lavorato al progetto.
L’analisi si è basata sui dati delle partecipazioni di tutte le società quotate in Europa e negli USA, sui dati di bilancio delle prime 50 banche europee quotate e sulle esposizioni finanziarie nei diversi settori.
Il test ha permesso ai ricercatori di avanzare due previsioni: primo, che l’introduzione di politiche ambientali nuove dovrebbe avere piccole conseguenze sulle principali banche europee, ma un effetto più marcato sui fondi pensione. Inoltre, che politiche climatiche rapide e stabili non implicherebbero un rischio sistemico, cosa che invece accadrebbe con più facilità se le nuove misure venissero introdotte in modo incerto.

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I pesticidi non sono necessari, lo dice l’ONU

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Come è noto, la popolazione mondiale è destinata a raggiungere i 9 miliardi di abitanti nel 2050. Di pari passo l’industria dei pesticidi, un mercato che vale circa 50 miliardi di dollari l’anno, è considerata vitale per proteggere le colture e di garantire forniture alimentari sufficienti.
Non tutti però la pensano così, e le organizzazioni internazionali cominciano a porre dei dubbi. Secondo quanto emerge da un rapporto reso noto dalle Nazioni Unite, i pesticidi non sarebbero infatti un’ arma necessaria per garantire quantità di cibo sufficienti per una popolazione mondiale così in rapida crescita: i danni da essi prodotti sarebbero infatti ben peggiori dei benefici che produrrebbero, sia in termini di inquinamento del suolo, che – di conseguenza – di salute della popolazione. Insomma, la necessità di usare i pesticidi sarebbe un mito: il problema non sono le quantità di cibo che dobbiamo produrre, ma come questo cibo deve essere meglio distribuito in modo che nessuno rimanga indietro.

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L’antibiotico-resistenza tra le conseguenze dell’inquinamento atmosferico

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L’inquinamento atmosferico sembra essere associato a un aumento del potenziale di infezione dei batteri che causano disturbi respiratori, in particolare di naso, gola e polmoni, producendo un’alterazione circa l’efficacia del trattamento antibiotico, ad affermarlo è uno studio pubblicato in questi giorni su Environmental Microbiology da parte di un gruppo di ricercatori dell’Università di Leicester, nel Regno Unito. Si tratta di un problema tutt’altro che secondario in termini di salute pubblica, dal momento che le cose stanno peggiorando. L’ultimo rapporto EFSA-ECDC riporta infatti un aumento di batteri antibiotico-resistenti nell’uomo, negli animali e negli alimenti, con il risultato che le infezioni causate da batteri resistenti agli antimicrobici portano a circa 25.000 decessi ogni anno nella sola Europa.

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