Basta dire che i migranti minano la nostra salute: sono vaccinati, più degli italiani

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Mentre stiamo affacciati alle salde porte d’Europa con lo sguardo verso il Mediterraneo, sulla questione migranti e salute pubblica siamo soliti usare due pesi e due misure. Noi, gli autoctoni, in troppi casi, e contro le evidenze della medicina, ci sentiamo giustificati a sentirci esitanti di fronte all’opportunità di vaccinarci, a sollevare delle obiezioni, ma al tempo stesso siamo inflessibili con loro, gli immigrati, rei di riportare in Italia malattie che il nostro paese avrebbe debellato. Come se la responsabilità della stabilità della salute pubblica di un paese fosse oggi sbilanciata sullo straniero che arriva e non sulla comunità che lo accoglie.

Fortunatamente, i dati e i fatti dicono decisamente il contrario: i migranti non stanno minando in alcun modo la nostra salute.

Tutto origina da un preconcetto che ci portiamo dietro da decenni di migrazioni: quello secondo cui chi proviene da paesi più poveri di noi non sarebbe mai stato vaccinato contro le più comuni malattie: morbillo, tetano, rosolia, polio, tubercolosi. In realtà, i dati mostrano chiaramente che oggi le cose sono cambiate. I paesi del bacino del Mediterraneo, compresi quelli che fungono da transito nelle rotte migratorie verso l’Europa, offrono in media coperture vaccinali molto elevate alla propria popolazione, anche più alte di quelle italiane ( qui i dati ) e nella maggior parte dei casi offrono gratuitamente ai migranti in partenza o in transito verso l’Europa la maggior parte dei vaccini in commercio. Ai bambini, ma anche agli adolescenti e agli adulti.

Lo mette nero su bianco un rapporto pubblicato qualche settimana fa dall’Istituto Superiore di Sanità che raccoglie i risultati del progetto ProVacMed (“Programmes for Vaccination in the Mediterranean area”) che per la prima volta ha mappato l’offerta vaccinale in 15 paesi del Mediterraneo non appartenenti all’Unione Europea, sia nei confronti dei cittadini residenti, che dei migranti in entrata, che il più delle volte transitano per questi paesi con l’obiettivo di varcare le porte d’Europa. Tuttavia i paesi vicini dell’UE stanno diventando con maggior frequenza sempre più destinazioni a lungo termine o addirittura finali per un numero crescente di migranti misti.

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Malaria, chikungunya e migranti

Reblogged from Corriere della Sera

Alcuni casi di malattie infettive che vengono riportati dalle cronache inducono a ipotizzare “migranti untori”, carichi di malattie infettive. Di recente è stata la volta di due malattie “esotiche”: la chikungunya e la malaria. Riguardo alla malaria, dopo il caso di Trento del mese scorso, è di alcuni giorni fa la notizia di quattro braccianti extracomunitari, tre magrebini e un sudanese, ricoverati nel reparto Infettivi dell’ospedale di Taranto. A poco sono valse in questo caso le rassicurazioni della stessa ASL sul fatto che questi lavoratori fossero senza dubbio stati infettati, in Italia, vivendo nel nostro Paese da un periodo ben maggiore rispetto ai 20 giorni che richiede l’incubazione della malattia. Approfondendo le caratteristiche dell’incubazione e del contagio di queste malattie, però, e controllando i dati dei controlli alla frontiera sulla salute dei migranti, ci si può rendere conto che gli sbarchi non possono essere messi in relazione con la diffusione di malattie come la malaria o la chikungunya. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un documento che recita: «fra migrazioni e malattie trasmissibili non vi è nessuna associazione sistematica».

Dati sulla malaria

«Sia nel caso della chikungunya sia della malaria, si tratta di malattie per la maggior parte importate nel nostro Paese dal turismo, e che molto raramente possono essere veicolate attraverso viaggi lunghi e difficili come quelli affrontati da chi sbarca sulle nostre coste in fuga dal proprio Paese. E in ogni caso, anche qualora davvero si avesse il caso di un migrante che giunge malato in Italia, questi verrebbe individuato ancor prima dello sbarco o nelle fasi immediatamente successive» spiega Giovanni Baglio, epidemiologo dell’INMP, l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà, in prima linea nella gestione degli aspetti sanitari degli sbarchi. I dati a conferma si trovano nelle recenti Linee Guida sulla salute dei migranti, pubblicate a giugno 2017. Nel periodo 2010-2015 – si legge – sono stati notificati 3.633 casi di malaria in Italia, che hanno provocato 4 morti. Sono risultati autoctoni (cioè frutto di contagi avvenuti in Italia) 7 casi. Per gli altri 3.626 casi, nell’80% si è trattato di stranieri rientrati temporaneamente nel Paese di origine e lì contagiati prima del loro rientro in Italia (81% di questo 80%) o di richiedenti asilo al primo ingresso in Italia (13% di questo 80%, in ogni caso individuati e curati). Nel restante 20%, la malattia ha riguardato italiani che si erano recati all’estero per lavoro, turismo, volontariato o missione religiosa. Da queste percentuali, emerge che su 3.633 casi di malaria, 2.349 sono di stranieri residenti tornati in visita al Paese di origine e lì contagiati, 725 sono italiani che si erano recati all’estero per turismo o lavoro e solo 377 i migranti giunti in Italia su un barcone.

 

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I migranti? Non portano malattie, ma sono traumatizzati. Il problema è la salute mentale

Reblogged from L’Espresso

Sono oltre 500 mila le persone sbarcate sulle coste italiane negli ultimi anni: 170 mila nel 2014, 154 mila nel 2015 e 170 mila circa nel 2016. Una cifra che corrisponde, grosso modo, agli abitanti di una città come Genova, anche se per una grossa fetta di coloro che arrivano nel nostro Paese l’Italia è solo un paese di passaggio.

C’è chi ha parlato addirittura di “sesto continente” riferendosi ai movimenti migratori, volontari e non, che interessano l’intero pianeta; anche se nel caso italiano più che a un sesto continente siamo di fronte alla Terra dei fraintendimenti. Il più grave, quello per cui la vulnerabilità sanitaria dei migranti viene interpretata come un problema che può mettere a repentaglio la salute degli autoctoni.

“Il vero problema che dobbiamo affrontare oggi riguardo alla salute di chi sbarca sulle nostre coste non è rappresentato dalle gravi malattie infettive e diffusive, la cui incidenza è assai contenuta per il fenomeno del “migrante sano” ormai ampiamente dimostrato dai dati, ma dal disagio psicologico di queste persone” spiega all’Espresso Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM).

“Dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia”.

Non si tratta di nascondersi dietro a un dito, di spostare l’attenzione da un problema a uno pseudoproblema, come sottolinea nientemeno che il prestigioso Karolinska Insitutet svedese sulle pagine dell’altrettanto prestigiosa rivista Nature , dove gli esperti hanno affermato senza mezzi termini che “I paesi ospitanti devono affrontare i livelli elevati di disordini della salute mentale nei migranti, nell’ottica di far sì che essi si integrino il meglio possibile”.

Mentre nel nostro paese si fa politica intorno alle millantate conseguenze epidemiologiche dell’accoglienza, il focus sulla salute mentale è entrato oramai a pieno titolo nelle agende internazionali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità per esempio ha dedicato la giornata mondiale della salute 2017 proprio alla salute mentale, anche in relazione al fenomeno delle migrazioni. Tuttavia, una primo passo l’abbiamo fatto anche in Italia: il 3 aprile scorso sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale  le Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale

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Stranieri più sani di noi ma prevengono meno

Reblogged from OMCEO Milano

Se agli stranieri residenti in Italia capita di ammalarsi, non è per una maggiore incidenza di comportamenti a rischio, quanto piuttosto per le stesse ragioni per cui capita di ammalarsi a chiunque di noi: perché abbiamo perso il lavoro, o perché non abbiamo più una casa, un riparo. Di Daniel Blake, per citare l’ultimo toccante film di Ken Loach, in Italia ce ne sono molti, e non certo solo nella popolazione straniera. La differenza principale fra gli stranieri e gli italiani è che i primi in molti casi provengono da aree del mondo dove sono endemiche malattie che da noi Stranieri più sani di noi, ma prevengono meno non rappresentano più un problema per la salute pubblica, come la tubercolosi, patologie che possono ripresentarsi con tutta la loro virulenza in casi di indigenza, che costringe gli immigrati, anche quelli regolari, a vivere in condizioni igienico-sanitarie precarie. In ogni caso, anche nelle situazioni più difficili, le premesse non sono allarmanti. Secondo i dati riferiti, per esempio, da una sorveglianza sindromica condotta tra maggio 2011 e giugno 2013 dall’Istituto Superiore di Sanità su oltre 5.000 persone ospitate presso centri di accoglienza, sono state riferite solo 20 allerta statistiche: 8 infestazioni, 5 sindromi respiratorie febbrili, 6 gastroenteriti e 1 caso di sospetta tubercolosi polmonare. Non si tratta dunque di untori, anche se monitorare lo stato di salute della popolazione immigrata, regolare e non, per paese di provenienza rimane importantissimo.

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