Infarto: come capire chi colpirà

SALUTE – Il problema principale per un cardiologo è capire quando una persona che non presenta sintomi è verosimilmente a rischio di essere colpita da infarto miocardico. Sebbene vi siano dei fattori di rischio ben noti, come il diabete, l’ipertensione o avere il colesterolo alto, non è al momento possibile capire se un individuo sano svilupperà o meno un evento cardiaco importante.

Anche sottoponendo tutta la popolazione sana a coronarografia o tac coronarica (cosa evidentemente impossibile e inopportuna dato il rapporto costo-efficacia, oltre che per l’elevata invasività della coronarografia non saremmo comunque in grado di affermare in maniera deterministica se una persona asintomatica svilupperà una patologia cardiaca grave oppure no.
Sappiamo che statisticamente all’interno di una certa popolazione una percentuale avrà un infarto, ma non siamo in grado di dire chi sarà colpito.

Come possiamo prevedere dunque se una persona che oggi ha una lesione coronarica iniziale e silente, domani svilupperà una qualche malattia cardiaca? Se finora non era possibile dare risposta a questa domanda, oggi una strada per riuscire a prevedere con precisione il rischio soggettivo di una persone ci potrebbe essere e passa per la genetica.

È quello a cui sta lavorando un team di ricercatori del Centro Cardiologico Monzino di Milano, dove una squadra di cardiologi, radiologi, emodinamisti e ricercatori, individuerà le caratteristiche radiologiche, molecolari o genomiche che identificano precocemente i soggetti a maggior rischio di sviluppare un infarto a medio-lungo termine. L’idea di fondo è quella di studiare il trascrittoma, cioè le caratteristiche dell’RNA circolante in persone senza alcuna manifestazione di malattia cardiaca, ma con TAC coronarica indicativa di parziale ostruzione delle coronarie, per poi seguire la persona per un certo periodo sottoponendola a tac coronarica periodica, e osservare se ci sono correlazioni fra i pattern di RNA e l’insorgenza di eventi cardiaci nel futuro.

Lo studio in questione si chiama EPIFANIA ed è già stato avviato, coinvolgendo 400 persone, con l’obiettivo di raggiungerne 1000, e seguirà i pazienti per un periodo di 5 anni.

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Terapia genica per le malattie neurodegenerative

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RICERCA – Usare la terapia genica sul cervello per curare alcune malattie neurodegenerative è una possibilità che sta diventando realtà. Un gruppo di ricerca dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e del Boston Children’s Hospital/Dana Farber Cancer Institute di Harvard è riuscito infatti a mostrare su un modello animale l’efficacia di una tecnica di terapia genica che si basa sul trapianto di cellule staminali del sangue direttamente nei ventricoli cerebrali.  Lo studio è stato pubblicato su Science Advanced.

“L’obiettivo della ricerca è quello di trapiantare nel cervello cellule geneticamente corrette in grado di produrre l’enzima mancante in alcune malattie neurodegenerative per battere le malattie sul tempo”, spiega a OggiScienza Alessandra Biffi, coordinatrice dello studio. “Il nostro gruppo studia le malattie da accumulo lisosomiale (LSDs), un insieme eterogeneo di malattie metaboliche ereditarie in cui, a causa di una mutazione genetica, le cellule non producono alcuni enzimi necessari al loro metabolismo. Si tratta di risultati estremamente innovativi. In passato anche altri gruppi hanno utilizzato questa modalità di trapianto per altri tipi di cellule o hanno impiegato la terapia genica con cellule staminali del sangue somministrandole per via endovenosa, però nessuno si era mai spinto a combinare questi due elementi e a trapiantare cellule staminali del sangue geneticamente modificate nel cervello”.

Le terapie attualmente disponibili per i pazienti affetti da LSD prevedono la somministrazione dell’enzima mancante direttamente nel sangue dei pazienti. Il problema è che questo tipo di approccio si rivela inefficace nel caso in cui la malattia si manifesti nel sistema nervoso centrale: a causa della barriera emato-encefalica, l’enzima non riesce a raggiungere il cervello, e la neurodegenerazione prosegue indisturbata. Il trapianto di cellule staminali del sangue geneticamente corrette o da donatore sano è un’alternativa per questi pazienti, ma è efficace esclusivamente in fase molto precoce, in genere prima della comparsa dei sintomi. Infatti, per questi approcci l’elemento temporale è fondamentale, dal momento che le cellule, normalmente infuse per via endovenosa, necessitano di tempo per raggiungere il cervello, attecchire ed esercitare un effetto terapeutico.

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Banca del DNA: ecco come funziona

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In ritardo rispetto agli altri paesi ma ce l’abbiamo fatta: dall’8 novembre 2016 anche l’Italia si è dotata di una banca del DNA, come stabilito nel lontano 2005 con il Trattato di Prüm, sottoscritto da Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Austria – e dall’Italia nel 2009 – con lo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale. Un trattato che prevedeva fra le altre cose anche l’istituzione di una Banca Dati Nazionale del DNA in seno alle forze di Polizia e di un Laboratorio centrale.

Non dobbiamo pensare a questa nuova banca come un grande laboratorio: qui non ci sono né provette, né scienziati in camice bianco. Si tratta di un cervellone elettronico che si trova nei pressi di Rebibbia, a Roma, dove sono – anzi saranno, dal momento che il processo di inserimento si concluderà verso fine anno – stoccati tutti i codici relativi ai DNA sequenziati provenienti da una decina di laboratori accreditati che si occupano in Italia di eseguire le analisi sui campioni di DNA raccolti dalle forze dell’ordine nell’ambito delle loro indagini. Un server insomma, che raccoglie i codici dei DNA sequenziati, che vengono poi messi in rete in modo da rendere più facile lo scambio di informazioni – il famoso match genetico di cui si sente tanto parlare nelle trasmissioni televisive – nell’ambito di indagini giudiziarie. “Ancora il numero preciso non lo sappiamo, anche perché completeremo l’inserimento di tutti i codici provenienti dai vari laboratori entro fine anno, ma si parla di di alcune decine di migliaia di codici stoccati ” ci spiega Andrea Lenzi, Presidente del Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita, attivo dal 1992 e che è stato scelto quale organo per garantire l’osservanza dei criteri e delle norme tecniche per il funzionamento del Laboratorio centrale per la Banca Dati.

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