Povertà, lavoro, istruzione: Italia lontana dagli obiettivi delle Nazioni Unite per il 2030

Stando ai dati Eurostat, dal punto di vista del raggiungimento degli Obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite l’Italia non ne esce benissimo rispetto al resto dell’Unione Europea. Per lo meno analizzando gli obiettivi che riguardano la povertà, il mondo del lavoro, le disuguaglianze sociali ingiuste e la salute della popolazione.

La popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale è maggiore in proporzione in Italia rispetto alla media europea (30% contro 23,5% medio), e soprattutto dal 2010 a questa parte le cose sono andate peggiorando: 8 anni era a rischio povertà un italiano su 4, oggi uno su 3. Come conseguenza, la percentuale di popolazione che vive in condizioni di grave deprivazione materiale è quasi doppia rispetto alla media UE: il 12,1% contro il 7%. Nel 2010 era il 7,4% degli italiani a vivere in queste condizioni.
Un esempio concreto: abbiamo il doppio di cittadini che nel 2016 non avevano abbastanza risorse per riscaldare la propria casa adeguatamente: il 16% della popolazione. E se in media nell’Unione Europea si è riusciti in 6 anni a ridurre questa fetta di persone, in Italia siamo riusciti ad allargarla. Un quinto degli italiani vive i case che sono definite povere, o fatiscenti.

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Continuare a studiare dopo la laurea: quanto pesano le differenze di reddito

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In Italia, lo sappiamo, ci sono pochi laureati rispetto agli altri paesi europei. Ci sono però altri due aspetti che vengono solitamente meno sottolineati: il primo è che dal 2007 a oggi sono sempre meno i giovani che decidono di proseguire gli studi dopo la laurea, il secondo è la scarsa mobilità sociale del sistema universitario italiano, che fa sì che statisticamente chi proviene da contesti familiari meno favorevoli finisca per accontentarsi di un titolo di studio inferiore. Insomma, nonostante il sistema universitario italiano grazie a borse di studio e case dello studente favorisca l’accesso alla migliore istruzione di chi ha meno possibilità meglio di come fanno altri paesi, non si può proprio dire che produca come output una reale equità. I dati di cui stiamo parlando sono quelli raccolti da Almalaurea, pubblicati alla fine di aprile, e riguardano il 2015.

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Dottori di ricerca, il dilemma della fuga all’estero

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Vale davvero la pena proseguire i propri studi attraverso un dottorato di ricerca? In un momento in cui il compimento della carriera accademica nel nostro paese è un miraggio, questa domanda se la fanno anche gli studenti più motivati. La Quarta Indagine annuale su dottorato e post doc dell’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), dal 2008 al 2014 il numero dei posti per futuri dottorandi è sceso del 19%, e solo nell’ultimo anno il numero di corsi di dottorato attivati in Italia è passato da 1.557 a 919.

Un accesso sempre più difficile al livello più alto di istruzione lo conferma anche l’Ocse, che mostra come nel 2011 l’Italia sia stata al 21mo posto su 32 nazioni per percentuale di studenti che intraprendono il dottorato di ricerca.   Anche per chi riesce a vincere una borsa e ottenere il titolo, il percorso accademico è decisamente in salita, specie rispetto alla media europea. Secondo un recente dossier ISFOL sulla situazione occupazionale dei dottori di ricerca italiani del 2006 a sei anni dal conseguimento del titolo, uno su quattro dei residenti all’estero nel 2012, ha avuto o aveva in corso al momento dell’intervista un post-doc. Tra i rimasti in Italia la media non sale sopra il 12%. C’è da dire che ad aver fatto le valigie, per l’estero o per un’altra città italiana, non sono stati poi così in tanti. Quasi uno su cinque, e di questi solo in due hanno varcato la frontiera.

Ma se dentro l’Accademia il dottorato spesso non porta i benefici sperati in termini di realizzazione professionale, fuori dall’Università le cose sembrano andare decisamente meglio, e non solo per chi ha deciso di trasferirsi all’estero. Sempre secondo il rilevamento Isfol, che ha coinvolto quasi 10.000 dottori del 2006, su 100 PhD che nel 2012 partecipano attivamente al mercato del lavoro, soltanto due sono in cerca di occupazione, mentre il tasso di inattività è di circa il 5%.

Nel mercato del lavoro, “l’economia della conoscenza”, come viene definita dall’Europa, sembra pagare più della mobilità in sé e per sé. E a godersi i benefici di essere un PhD non sono solamente quelli che hanno deciso di varcare la frontiera, ma anche chi è rimasto in Italia. Certo, dipende da che vantaggio vogliamo considerare. Dal punto di vista del salario per esempio, chi nel 2012 viveva all’estero guadagnava molto di più. Un reddito medio annuo di 29.000 euro a fronte dei 20.000 in media di chi è rimasto in Italia.   A ben vedere però il dato negativo per gli “emigranti” si trova, e si tinge di rosa. Fra i dottori che nel 2012 vivevano all’estero – rileva sempre Isfol – la differenza fra il tasso di occupazione maschile e femminile è doppia rispetto a quella di coloro che sono rimasti in Italia. Al tempo stesso chi va all’estero fa più ricerca all’interno del proprio lavoro, e quest’ultimo è maggiormente attinente agli studi pregressi. L’85% dei residenti all’estero infatti svolge attività di ricerca nel campo in cui si è specializzato, contro il 63% medio dei colleghi italiani.

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Perché la formazione professionale non fa lavorare di più, ecco i dati

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Possedere una qualifica professionale oggi significa forse avere un mestiere, ma non certo un lavoro sicuro. Significa spesso mettersi in coda per un primo stage fuori dalla realtà ovattata della scuola in vista della “prima esperienza”. In un contesto in cui una laurea o un diploma non garantiscono più un buon posto di lavoro, sempre più famiglie incoraggiano i propri figli a intraprendere un percorso di formazione professionale, magari triennale, nella speranza che avere un mestiere in tasca ed essere giovani rappresenti una possibilità in più di entrare nel mondo del lavoro.   Come abbiamo visto però, secondo i dati Unioncamere sugli assunti non stagionali, i giovani che posseggono una qualifica professionale sono la fetta più esigua nella stima degli assunti come dipendenti nel corso del 2014. In altre parole, negli ultimi anni i giovani che hanno scelto percorsi professionali sono sempre di più – +18% degli iscritti dell’ultimo anno ed +52% rispetto al 2010-12 – ma i posti di lavoro a loro dedicati sono sempre meno.

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