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«Tra le cose che ci ha insegnato l’esperienza trentennale sull’epidemiologia ambientale nelle aree contaminate non trascurerei il fatto che se essa non si accompagna a strategie mirate di prevenzione primaria, rimane zoppa e non riesce ad andare lontano». Con queste parole Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di epidemiologia ambientale dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, apre la riflessione sullo stato dell’arte intorno al caso di Gela, in occasione della ventottesima edizione della Conferenza Internazionale di Epidemiologia Ambientale che si è tenuta a Roma nei giorni scorsi.
Il caso di Gela, in Sicilia, è emblematico di una situazione che accomuna diverse aree del nostro Paese, dove dopo cinque decenni di contaminazioni documentate ad un certo punto si sono interrotti i processi produttivi inquinanti ma non sono state attuate misure di bonifica definitive per invertire la rotta. È stata a lungo richiamata la necessità di studi eziologici e di azioni di prevenzione primaria ma poco o niente è stato fatto su questo piano.