Come ti rovino l’industria del falso con un pezzo di silicio

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Come mandare in rovina l’industria del falso? Con un chip. Questa almeno è l’idea di Srini Devadas, docente di Ingegneria Elettrica e computer science che sulle sue ricerche sta costruendo un vero e proprio business. Che si tratti di un passaporto, di un badge o di una borsetta, l’eclettico ingegnere è convinto di farcela e non esclude altre applicazioni.

L’idea di Devadas è semplice e soprattutto low cost: costruire dei minuscoli chip che abbiano la stessa peculiarità dell’impronta digitale umana: essere cioè unici. Come? Introducendo delle variazioni quasi impercettibili all’interno degli stessi chip in fase di fabbricazione, che li rendano l’uno diverso dall’altro. Differenze che devono essere piccolissime e soprattutto impossibili da prevedere. Questi chip anti contraffazione sono inoltre fatti di silicio, che li rende una tecnologia assolutamente a basso costo, facilmente utilizzabile all’interno di etichette con identificazione a radio frequenza.

L’azienda che sta trasfomando l’idea di Srini in realtà si chiamaVerayo ed è un’azienda nata nel 2005 in seno al MIT, proprio grazie a lui. Da anni l’azienda lavora nella direzione di mettere a punto nuove tecnologie per combattere la piaga della contraffazione basandosi sulla cosiddetta PUF technology, inventata proprio da Devadas durante il suo lavoro al MIT. La PUF technology non è altro che un insieme di circuiti elettrici estremamente sensibili a variazioni minime, che possono essere incorporati nel chip per renderlo unico, come un’impronta digitale umana. Questi semiconduttori sfruttano quindi questa sorta di “biometria del silicio”, e dato che le variazioni prodotte sono imprevedibili, permanenti e impossibili da replicare, ogni chip diventa non clonabile e i parametri utilizzati diventano segreti dal punto di vista della sicurezza.

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L’agricoltura italiana è in rosso, ma l’industria alimentare cresce

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Il report Unioncamere conferma il trend negativo degli ultimi anni, ma mostra anche un ritorno alla terra di impiegati. Più colpito il Nord Est mentre accelera il Centro-Sud.

I dati parlano chiaro: l’agroalimentare italiano sta vivendo un periodo tutt’altro che florido, ma – è proprio il caso di dirlo – non si può fare di tutta l’erba un fascio. In particolare è necessario distinguere tra settore agricolo, in crisi, e industria alimentare, in leggera crescita. Anche l’ultimo trimestre del 2013 ha confermato infatti un trend globale negativo, con circa il 4% di aziende agricole in meno rispetto allo stesso periodo del 2012, tuttavia parlare di settore agroalimentare come un monolite può essere fuorviante. Secondo il dossier appena pubblicato da Unioncamere su dati AgrOsserva in collaborazione con Ismea, è infatti l’agricoltura italiana a vederci più nero, con 5.882 imprese agricole in meno solo negli ultimi tre mesi del 2013, che corrispondono a un 10% in meno rispetto allo stesso periodo nel 2009. Il trend negativo che sta interessando il settore agricolo non sembra però coinvolgere l’industria agroalimentare, che – sempre secondo dati Unioncamere – registra un aumento su base annua dell’1,2%, pari a 802 aziende in più rispetto al 2012.

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