Sul tema #stayhuman, concetto usato di questi tempi come stendardo, ma a mio modesto avviso poco approfondito, segnalo questo libretto dal titolo “Il Nichilismo” scritto da Franco Volpi (Laterza, 2009), un’interessante come introduzione per inquadrare il concetto di nichilismo e aiutare il lettore a capire un po’ di più come esso si declina nella nostra attualità.
—
In particolare, dal capitolo su ‘Tecnica e nichilismo’:
«L’uomo è più che mai un animale precario.
Ma se la sua precarietà e la sua unicità reclamano una speciale vigilanza, volta a preservarlo, vien fatto di chiedersi: a che cosa può ancora attenersi lo spirito oggi in affanno e disorientato? Sussistono risorse di senso o energie simboliche ancora intatte per mantenere l’equilibrio nel vortice del nichilismo che la tecnica induce?
Ancora una volta: non occorre essere heideggeriani per ammettere con il maestro teutonico che è assai difficile, se non impossibile, ridare oggi un senso alla parola «umanismo». Non tanto, come egli asserisce nella Lettera sull’«umanismo», perché quest’ultimo rappresenterebbe un’esperienza dell’uomo non originaria, nata dalla traduzione della philanthropía ellenistica entro l’orizzonte epocale della romanitas. Bensì perché l’umanismo – e a maggior ragione l’«antropologia della
Lichtung» prospettata da Heidegger, in cui l’uomo è semplicemente dichiarato un problema senza soluzione umana – non garantisce nulla.
Nella generale impossibilità di ricette condivisibili, è forse possibile rifugiarsi in un’indicazione fragile, ma praticabile: quella di un atteggiamento senza illusioni che si prefigga di conservare l’uomo senza farne il centro dell’universo, la pratica – diciamo così – di un «umanesimo» non antropocentrico che si apra alla crescita tecnico-scientifica senza nostalgie per l’Immemorabile perduto, ma che non si sottoponga nemmeno docilmente all’imperativo della tecnica all’infuori di ogni regola. Un atteggiamento che pratichi un linguaggio di verità, senza catastrofismi né infondati ottimismi, e si metta alla ricerca di risorse simboliche per risignificare l’abitare dell’uomo sulla terra, radicandolo nella natura e nella storia. Insomma, un umanesimo che, di fronte al carattere asimbolico della tecnica, si sforzi di attivare il senso di responsabilità di cui l’umanità è in linea di principio capace.
Una cosa è certa. Se la tecnica è la magica danza che l’epoca contemporanea esegue, allora l’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx non basta più. Non basta più cambiare il mondo, perché esso cambia anche senza il nostro intervento. Si tratta piuttosto di interpretare questo cambiamento, affinché esso non porti a un mondo senza di noi, a un regnum hominis privo del suo sovrano. Guidare tale interpretazione è uno dei compiti più urgenti di una filosofia della tecnica al nominativo.»