Perché la gestione dei figli in estate è un pessimo esempio di equità sociale

La scuola pubblica, che dovrebbe essere il motore dell’uguaglianza e dell’inclusione sociale, d’estate non può più prendersi il lusso di una vacanza. Per le famiglie che – per dirla con gli eufemismi moderni – “lavorano nell’esecutivo” e dove i genitori lavorano entrambi, per le famiglie di giovani con un reddito medio basso o per quelle dove c’è un solo genitore, i costi per la gestione dei figli a partire dalla fine di giugno possono essere un grosso problema.

Se da una parte le scuole anno dopo anno si dicono di guardare al futuro, fra inglese, LIM e progetti di digitalizzazione di diverso tipo, dall’altra il modello che fa da sfondo a tutto questo è lo stesso degli anni Settanta, dove il grosso sottointeso di questo scenario di cartapesta era ed è il lavoro della donna, che nel 39 per cento dei casi è un part-time.

Se ne sono accorti i comuni, la cittadinanza attiva, le associazioni che propongono diverse forme di centri estivi per tutti i gusti. Il problema è che i costi per questa offerta formativa sono (ovviamente) inaccessibili per molti. I dati più recenti in merito li ha raccolti un’indagine dell’Osservatorio sulle Famiglie di Federconsumatori : i costi medi in Italia per i centri estivi sono 624 euro al mese a bambino nelle strutture private e 304,00 Euro in quelle pubbliche. Il costo medio settimanale è risultato infatti pari a 156 euro per un centro estivo in una struttura privata e 95 euro per la mezza giornata, cioè fino alle 14.

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