Il racconto di un mese a piedi fra le montagne dell’Annapurna Sud, Nepal.
La donna che balla per noi quella prima sera a Kathmandu, ha mani di seta e occhi tristi.
Siamo seduti a un grande tavolo in uno dei ristoranti del centro, e mangiamo il primo Daal Baat, il piatto tipico nepalese, che impareremo a gustare davvero solo con il passare dei giorni.
Ci aspettiamo molto da questo viaggio, organizzato da e per un gruppo di persone che ruotano intorno alla sezione bellunese del CAI. Siamo vestiti come siamo arrivati: con i nostri jeans, le nostre camicie e cinture; nelle nostre parole di quella prima sera c’è tanta montagna: respiri di vette, bramosia di toccare i piedi dei grandi Ottomila. Fra noi ci sono scalatori e scialpinisti con una lunga storia d’amore con la montagna alle spalle.
A luglio 2022 è diventato virale un video su TikTok in cui alcune lavoratrici di un noto marchio di moda online denunciavano le condizioni di lavoro povero e sfruttato per poter vendere i prodotti a un prezzo così – è il caso di dirlo – stracciato. Oltre alle centinaia di commenti da parte di utenti per lo più giovanissimi, che deridevano le lavoratrici che stavano denunciando facendo ironia sulla necessità di velocizzare ancor più i processi di produzione – “Veloce, amica, che sto per ordinare”- colpisce il tentativo di alcuni account di sottolineare l’ovvio, ovvero che si tratta di processi di sfruttamento sul lavoro, e le conseguenti risposte da parte di giovanissimi e giovanissime che, sorpresi, dichiarano candidamente di non notare alcun tipo di sfruttamento. “Ma hanno l’aria condizionata”, “beh, ma hanno un lavoro”, “non vedo nessun bambino”, e via dicendo.
Parliamo spesso della cosiddetta Generazione Z – i ragazzi che sono diventati maggiorenni dopo il 2013 – quelli per i quali è stato coniato il famoso meme ‘Ok Boomer’ come ironica sintesi della distanza spesso siderale fra le abitudini e le opinione dei giovanissimi e quelle dei loro genitori, i Baby Boomers, appunto. Alla Generazione Z, a differenza dei loro fratelli maggiori – i Millennials, che ora hanno dai 30 ai 40 anni – vengono poste sulle spalle molte aspettative. Sono dipinti come la generazione più consapevole di sempre sui problemi del pianeta: cambiamenti climatici, gender gap, diritti delle minoranze. Sono “sul pezzo”, informati, viaggiano molto e sono connessi con i loro coetanei da tutto il mondo. Ci aspettiamo da loro una grande consapevolezza, come sembrano essere gli influencer più noti della loro generazione. Tuttavia, come abbiamo raccontato qualche settimana fa analizzando i dati Istat, non bisogna dimenticare che i giovani non sono tutti uguali: accanto ai globetrotter c’è un 17% dei 20-24 enni che non ha un diploma.
«Quante volte non si racconta della propria vita e delle proprie aspirazioni discorrendo con la gente? Soprattutto di queste ultime si parla molto, perché è bello pensare a quello che si avrebbe dalla vita, perché la vita la si ama proprio quando in essa si ha la maniera di dare libero sfogo alle proprie aspirazioni, affinché queste rechino soddisfazione.
Oggigiorno, purtroppo, non è così per moltissima gente, costretta a subire e a far subire alla propria volontà imposizioni di vario genere. La volontà dell’individuo, quindi, frustrata in tal modo da un ordinamento sociale retrogrado ed egoista, aspetta il momento opportuno per riuscire ad imporsi. Nell’attesa, ognuno pensa come sarà bello il domani che porterà alla soddisfazione morale di un’attività coscientemente ed entusiasticamente svolta per il consolidamento di una società cambiata. Per questo, infatti, si parla molto delle nostre aspirazioni.
Io no ho un mestiere fisso. Non ho, di conseguenza una qualifica. Dall’età di tredici anni ho incominciato l’esperienza del lavoro salariato e non ho avuto quindi il tempo di specializzarmi in un dato mestiere. Ho fatto sempre un po’ di tutto: dalla cameriera alla giornalista, dall’impiegata alla contadina, quello che trovavo sottomano, nei diversi momenti della vita. Non tutti, questi mestieri, mi sono piaciuti, è da credere. Qualcuno sì, e avrei voluto continuare se non fossero sopravvenute complicazioni. Attualmente, poiché sono sposata, faccio la casalinga, attività che, a suon del vero, non mi va molto a genio.
Non sono tagliata per starmene tutto il giorno in casa, sia pure esplicando tutte le attività che la posizione comporta. Eppure la famiglia mi piace, la casa anche, i bimbi pure. Ma così facendo non mi sento parte della società, mi sento un nulla e diventa sempre più difficile credere il contrario. Vorrei lavorare al di fuori della mia casa. La casa, per me, dovrebbe essere il caldo rifugio dopo il lavoro, un lavoro che sia veramente lavoro, per il quale la fatica sia una soddisfazione della propria volontà.
Nella mia città, dove – come in tutte le altre città – ci sono migliaia di disoccupati e dove non si riesce a trovare un buco di un lavoro neanche a cercarlo con la lanterna, la cosa si presenta piuttosto difficile. Non è che non si trovi quello che si vorrebbe, non si trova niente e perciò la sofferenza di un mancato lavoro è doppia! Non si creda che io esageri adoperando la parola sofferenza. L’ho adoperata apposta, perché ci sta e significa quello che io sento.
No, la donna di casa non è fatta per il mio carattere. Io no posso sedermi a tavola e pensare che i soldi per il pranzo li ha guadagnati soltanto mio marito, non posso, anche se sbaglio, fumare una sigaretta al pensiero che i soldi per comprarla non sono frutto del mio lavoro. Così per tutto il resto, che è molto e si ripete ogni giorno. È perciò che quando penso a quello che vorrei, penso sempre a un lavoro, che mi dia la facoltà di sentirmi qualcuno, nella famiglia, nella società e rispetto a me stessa.
Oggi non saprei quale lavoro scegliere per il fatto che anche se mi si presentasse l’occasione accetterei di fare tutto quello che so fare. Poi vorrei un appartamentino di qualche stanza (oggi sono sistemata terribilmente male). Vorrei abbellirla, la casa, con i soldi ricavati dal mio lavoro e da quello di mio marito, un po’ alla volta, mobile dopo mobile, cosuccia per cosuccia, perché penso e credo sia questa la maniera di amare poi veramente il proprio nido familiare. Vorrei avere la possibilità di disporre, al bisogno, dei soldi per pagare tutto in una volta le scarpe e le altre indispensabili cose che occorrono per vivere. Vorrei, la sera dopo il lavoro, sedere con mio figlio (che per allora crescerà) e mio marito, in un angolo della mia casa, a discorrere di lotte, di lavoro, di letteratura e di reciproche soddisfazioni. Vorrei poter vedere dei buoni film e leggere buoni libri. Vorrei un avvenire di pace per mio figlio che è nato da poco. Vorrei non vedere per la strada bambini con le scarpe rotte e vestiti stracciati chiedere la carità sulle porte della città, mentre i ricchi si degnano appena, assumendo un’aria da benefattori, di lasciar scivolare nel cappello teso qualche mezzalira.
Infine vorrei che tutti avessero ciò che desiderano, di lavoro e benessere. Vorrei vedere tutti contenti, cosa oggi impossibile finché si continua a parlare e a fare preparativi di guerra.
Vorrei che tutti amassero la vita e che essa fosse per ogni individuo fonte di serenità, di benessere, di gioia.
È per questo che io aspiro soprattutto a un domani nuovo, perché amo la vita e voglio – ne ho il diritto – che essa risponda alle mie aspirazioni.»
Tina Merlin, Vorrei soprattutto… (1952), in Adriana Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro (Cierre Edizioni, 2011)
Suonano le sette del mattino all’Abbazia di Casamari, il tempo delle lodi. Non saranno veramente lodi, poiché il 25 maggio è la festa patronale, e si fa messa solenne. Non avrei potuto fotografare la scena di questi monaci cistercensi in abito nero, alcuni bianco, che prendono posto nei loro scranni di legno scuro, in silenzio, per iniziare di lì a poco il canto. Gregoriano. Sarebbe stato come profanare il tutto. Mi chiedo se le parole non siano un’altrettanta profanazione; probabilmente sì: è il canto a bastare.
Qualche pennellata è sufficiente: la pietra chiara della chiesa gotica è dorata, complici le vetrate in alabastro. Mi viene in mente il famoso verso di Neruda «Nuda sei enorme e gialla come l’estate in una chiesa d’oro». La chiesa d’oro, dove l’oro non è il metallo che troveremo accecante a Montecassino, ma l’oro del Sole. La pietra d’oro. È stata costruita nel 1203, l’Abbazia di Casamari, all’epoca in cui per quegli Appennini girava Francesco d’Assisi. Stare lì, oggi, in questo consesso luminoso mi travolge.
Il monaco più anziano è incappucciato, e si siede all’organo, per supportare gli altri nell’intonazione. No, non penso al Nome della Rosa, penso piuttosto a Francesco, a Chiara, a chi ha fatto del canto una strada. Nel Nome della Rosa non canta nessuno, non c’è spazio per il Gregoriano, per la vibrazione della Gioia dell’Altezza. Chissà perché Eco non riesce a esprimere questa Bellezza ma solo altri aspetti, forse meno necessari. Ma chi sono io per giudicare le scelte di Umberto Eco. La pietra d’oro mi lascia quel misto di propulsione alla vita e turbamento. Uscire fra i papaveri rossi per incamminarsi verso Arpino è decisamente straniante. Il sole è battente, il grano giallo e il cielo blu, e io sono una pennellata nera del famoso quadro di Monet. Oggi la tappa sarà fisicamente più leggera, un buon bilanciamento rispetto al giorno prima: superiamo morbidamente cascine, pollai, filari.
Prima di Arpino dobbiamo passare per Isola del Liri, una cittadina nota per la sua cascatella nella piazza principale. Siamo prepotentemente a inizio Novecento: la centrale è idroelettrica, le pale palano, le turbine turbinano, le cascate cascano, i canneti cannano, e fabbriche fabbricano. I Normanni bevevano Calvados. Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.
Ci rifocilliamo con una pasta al pesce, e man mano che ci allontaniamo dal Centro con i suoi canaletti produttivi, ritorniamo in un passato più fermo. L’Abbazia di San Domenico di Sora (un Benedettino molto interessante vissuto nel X secolo e cui si intrecciano vicende fra Vico, Trisulti e Collepardo) ha una cripta meravigliosa, che possiamo gustare al buio. Nessuno aveva acceso le luci, probabilmente è poco visitata, e nessuno glielo ha chiesto. Fuori, uno spiazzo con un camioncino che vendeva fragole succose a poco prezzo. Sono seduta nella navata centrale quando incontro Cicerone. Di fatto siamo a casa sua, dato che l’Abbazia è stata costruita sopra i ruderi della sua villa natale. Sono certa fosse lui, anche se ha il volto di un simpatico settantenne con gli occhiali quadrati, e tiene in mano delle fotografie. Attende fremente il parroco per dargliele: a lui appartengono, d’altro canto, perché lo ritraggono durante la processione dei giorni passati. Sono certa fosse Cicerone in persona perché iniziamo una conversazione surreale a proposito di amici suoi – intendo di Cicerone – e dei vari imperatori della dinastia Giulio-Claudia, che solo in una famiglia o in una piazza di paese potrebbe verificarsi. Inizia con una serie di domande a raffica per testare se so chi veramente scriveva i testi a Cicerone in Senato, e mi snocciola una serie di pettegolezzi su Agrippina e sui suoi nipoti. È eccezionale. Con me, poi, cade bene perché ho fatto diversi esami di storia romana e letteratura latina all’università – per non parlare del fardello liceale – e il risultato è che sembra stiamo parlando di cronaca politica, come alle riunioni che facciamo giornalmente con i miei colleghi di Infodata, quando spettegoliamo sul ghostwriter di tal politico o sugli amanti di quell’altro.
Mi sono svegliata Cistercense e dopo pranzo sono già sdraiata su un triclinio a mangiare chicchi d’uva. Romana. La strada per Arpino si snoda salendo in mezzo alla campagna, fra vigneti, prati e piccole frazioni quasi disabitate che mi ricordano alcuni paesini delle mie parti. La salita a Collecarino è tosta ma è l’ultima della giornata. Tuttavia, il caldo è davvero afoso e faccio fatica. Non ci sono bar, supermercati, o fontanelle all’orizzonte. Ho imparato che nel sud Italia i negozi non hanno l’abitudine di aprire alle tre del pomeriggio come qui da noi, ma dopo le cinque; e considerate le temperature mi è piuttosto chiaro il motivo. «Guarda: due fontanelle!» esclamò d’un tratto la Fata Morgana. Mi avvicinai ed erano in realtà due picchetti di ferro per agganciare gli scuri. Bene, ma non benissimo! Ci rifocillammo in piazza ad Arpino, un dolce borgo che si inerpica sulla roccia.
Sono lì appoggiata al muro della cucina di Roberto, e lo guardo cucinare, anzi ‘spignattare’ – parola che rende molto meglio l’idea, quando lui si volge verso di me e mi avvicina il cucchiaio di legno con quello che scoprirò essere puré: «Manca sale?» mi chiede. «No, mi par bene». Questo gesto così spontaneo, bello, fra due persone che non si conoscono se non da un minuto e che non si sono rivolte altre parole in precedenza, è uno dei sensi del Cammino. Roberto è un ospitaliere che con la moglie Marina accoglie i pellegrini nella sua domus estiva, a donativo. Mi sento subito a casa: pasta fagioli e pancetta, polpette, puré e albicocche. vino e limoncello, ascoltando le storie di vita di Roberto, che mi riempiono di curiosità. Nella loro casa, a tanti chilometri dalla mia, ritrovo anche un pezzo della mia infanzia: la stessa stufetta per il bagno Vortice color tortora che avevamo a casa nostra a Longarone quando ero bambina per scaldare il bagno. Una volta c’erano meno cose. Forse rivedendola in foto anche qualcun altro si commuoverà come mi sono commossa io.
Mi viene da pensare che non solo chi cammina, ma anche chi vive l’ospitalità in questo modo, è una persona ‘da passato’. Non può essere altrimenti. Vengo a sapere infatti da Roberto che a Pieve Santo Stefano esiste un Archivio dei Diari, un’associazione dove è possibile depositare il proprio diario, o i propri scritti, in forma più o meno riservata, affinché rimangano come memoria comune. Per una persona proiettata nel passato come me è una Rivelazione.
Spero fra me e me che Cicerone non lo venga mai a sapere, che già ci ha fatto impazzire con quello che ci è pervenuto, ci mancano solo ulteriori diari.
Casamari – La pietra d’oroDa Casamari ad ArpinoIsola del LiriAbbazia di San Domenico di Sora«Una fontanella!» No.Arpinomortacci tua MTCInfanziala casa di Roberto, contraddistinta dalla B di Benedetto
NB. La citazione in corsivo è tratta dal romanzo I fiori blu, di Raymond Queneau (trad. Italo Calvino). Uno dei libri più geniali di sempre, se piace il genere.