Endometriosi: come si diagnostica, come si cura e gli scarsi investimenti nella ricerca

L’endometriosi è una di quelle malattie il cui nome incute timore nelle giovani donne. Sono molte le storie di ragazze che vivono un vero e proprio calvario. È importante mettere quindi in chiaro un elemento importantissimo: l’endometriosi è una malattia dalla quale oggi si può guarire, e con la quale sicuramente si può convivere. A patto che sia diagnosticata senza ritardi, di modo che non abbia il tempo, lasciata a se stessa, per compromettere la funzionalità degli organi del nostro corpo che inevitabilmente tocca. E a patto che a trattarla siano specialisti competenti, che siano stati formati adeguatamente su come intervenire per assicurare alle giovani donne di poter conservare anche in caso di intervento, la piena funzionalità dei propri organi e una vita normale. 

L’endometriosi è una malattia dall’andamento cronico progressivo che si manifesta nelle donne in età fertile, anche se è una malattia congenita. Le donne con endometriosi presentano delle cellule dell’endometrio, la mucosa che normalmente riveste esclusivamente la cavità uterina, all’esterno dell’utero, cioè in altri organi come intestino, apparato urinario o ovaie. Queste cellule con lo sviluppo sessuale, quindi con l’attività ormonale, iniziano a duplicarsi creando dei cumuli dannosi per questi organi e che dolgono molto in risposta alle curve di estrogeni del ciclo sessuale femminile. I sintomi non sono legati alla quantità di malattia ma alla sede. A seconda di dove è il focolaio, si sente più o meno dolore. 

“Le responsabilità del fatto che molte donne siano segnate profondamente dall’endometriosi è nostra, della medicina, delle istituzioni, che solo negli ultimi anni hanno iniziato a investire nella ricerca e nella formazione della classe medica su come diagnosticare e trattare questa malattia”, spiega Pietro Giulio Signorile, presidente della Fondazione Italiana Endometriosi onlus, che da anni si batte per il riconoscimento di questa malattia a livello istituzionale. 

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Alcol: negli ultimi 10 anni la situazione non è migliorata 

La pandemia, in particolare i lockdown non hanno esacerbato il consumo di alcol fra gli italiani. L’ultima relazione al Parlamento sugli interventi realizzati ai sensi della legge 30.3.2001 n. 125 “legge quadro in materia di alcol e problemi alcol correlati” mostra che nel corso del 2020 è stato stabile, rispetto al 2019, il consumo giornaliero di alcol, anche se continua ad aumentare il consumo fuori pasto.

Ma non significa che va tutto bene. Se allarghiamo lo sguardo all’ultimo decennio, notiamo che in molte fasce d’età è aumentato il consumo di alcol, specie il suo abuso, in termini di percentuale di popolazione che na fa uso.

Come è andato il 2020. Dati di sintesi
Il consumo di alcol si misura con diversi indicatori: le unità alcoliche consumate ogni giorno, la percentuale di persone che consumano almeno una certa quantità di alcol per periodo, e la percentuale di persone che hanno avuto episodi di abuso  nell’ultimo anno. L’Istituto Superiore di Sanità (Osservatorio Nazionale Alcol) ha, ormai da anni, costruito un indicatore di sintesi che combina due principali comportamenti a rischio: il consumo abituale e il binge drinking (l’ubriacatura, per capirci). Sono da considerare a rischio gli uomini che hanno superato un consumo quotidiano di due Unità Alcoliche standard (UA), le donne e gli anziani che hanno superato un consumo quotidiano di una UA, e tutte le persone che hanno praticato il binge drinking almeno una volta nel corso dell’anno passato.

Nel 2020 il 22,9% degli uomini e il 9,4% delle donne con più di 11 anni, o hanno bevuto troppo come media giornaliera o hanno avuto almeno un episodio di ubriacatura. L’analisi per classi di età mostra che la fascia di popolazione più a rischio per entrambi i generi è quella dei 16-17enni, seguita dagli anziani ultra 65enni.

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Droghe, alcol, fumo. Come misurare davvero le dipendenze?

Mezzo milione di persone ha partecipato al sondaggio del Global Drug Survey 2022, per monitorare il consumo di droghe negli ultimi sette anni, dal 2015 al 2021. Il motivo è presto detto: nel mondo il consumo di sostanze psichedeliche, MDMA, cocaina, anfetamina e ketamina, sta crescendo sensibilmente fra i ragazzi con meno di 34 anni. La maggior parte del consumo di droghe è diminuito con l’inizio del COVID-19. Anche l’elevata percentuale di consumo di tabacco tra le popolazioni più giovani che consumano droghe rimane elevata, così come quella di alcol, che rimane IL principale problema e che viene incluso in questa survey al pari delle sostanze stupefacenti. Lo precisiamo, perché non è così comune che ciò avvenga.

Quest’anno il sondaggio ha provato a correlare il consumo di droghe con le abitudini delle persone, in particolare con il tipo di musica ascoltata e con le scelte alimentari. Non certo per puro onanismo statistico, ma per cercare di capire quali contesti possono essere più a rischio. L’idea di partenza è che le droghe sono “scelte” in parte in relazione ad altri interessi. Questa conoscenza può aiutarci a rivolgerci a popolazioni diverse in modi diversi quando pensiamo ai messaggi di salute pubblica e alla promozione della salute. Le percentuali più alte di consumo recente di droghe si riscontrano tra coloro che hanno selezionato la musica dance elettronica come genere musicale preferito, con percentuali più elevate di MDMA, di sostanze psichedeliche e di ketamina tra gli appassionati di techno, trance, dubstep, hard dance. La percentuale più bassa di consumo di droga è stata segnalata tra gli appassionati di jazz e di musica classica. Si osserva una correlazione piuttosto netta tra l’uso di droghe come l’MDMA e i battiti al minuto (BPM) della musica. Jazz o musica classica non sarebbero un ottimo abbinamento con l’MDMA. Nel complesso, fra chi ha frequentato settimanalmente discoteche nel 2021: l’80% ha fatto uso di cannabis o tabacco, più del 50% ha fatto uso di MDMA e più del 40% di cocaina. Circa 1 su 5 ha riferito l’uso di allucinogeni tra cui LSD e funghi magici.

Un’altra correlazione curiosa riguarda le abitudini alimentari. Le persone che si identificano come vegane hanno maggiori probabilità di riferire l’uso recente della maggior parte dei tipi di droghe, rispetto agli onnivori e ai vegetariani.

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