“La vera cura dei pazienti COVID-19 in terapia intensiva è la ventilazione: il nostro lavoro è tenerli in vita affinché possano, quando possono, guarire da soli. Al momento l’unico farmaco che dà risultati è il cortisone, a cui si aggiunge l’eparina a basso peso molecolare per evitare embolie e trombosi.” Sono le parole di Maria Luisa Radice, responsabile di struttura di un piccolo ospedale della provincia di Genova, che in queste settimane si ritrova a dover riconvertire la propria terapia intensiva di 7-8 posti – perché questi sono i posti letto di una terapia intensiva di un ospedale di provincia – in reparto COVID, spostando i pazienti non COVID-19 in altre strutture.
È importante valutare la dimensione di un ospedale: abituati a sentir parlare dei grandi centri delle metropoli, fatichiamo a inquadrare l’impatto di questa pandemia sul resto del territorio.
A inizio novembre, contiamo oltre 2000 pazienti COVID-19 in terapia intensiva, l’equivalente di 200 reparti di un ospedale medio solo per pazienti positivi a COVID-19. Da più parti si levano le voci di chi sostiene che l’impatto del nuovo coronavirus sia irrisorio. Non è così: i flussi in terapia intensiva sono stati enormi, la mortalità complessiva in questi reparti è aumentata – almeno stando alle testimonianze dei nostri intervistati – e di fatto si tratta di polmoniti sempre gravissime.