Per cinquant’anni il governo canadese ha forzato le donne Inuit, minoranza etnica che da secoli vive in una remota area a nord ovest del paese, a recarsi a sud, lontano dunque dalla loro terra di origine, più povera e con meno infrastrutture, per partorire i propri figli. La ragione dichiarata per la pratica, iniziata nei primi anni ’70, era di migliorare i tassi di sopravvivenza alla nascita e ridurre le complicanze nelle comunità remote senza ospedali e con cure prenatali limitate. Per molte donne indigene però, questa politica ha trasformato la gravidanza in una malattia, privando le donne inuit delle cure con i metodi tradizionali di cui si fidavano, che conoscevano. Avendo lasciato le loro comunità molto prima delle loro scadenze, esse hanno trascorso settimane lontano dalle loro famiglie per partorire in un ambiente sconosciuto, curate da medici e infermieri che non parlavano la loro lingua madre.
Negli ultimi anni si è iniziato a cambiare rotta: sono state potenziate le infrastrutture locali e tre donne inuit su quattro oggi partoriscono i propri figli in una clinica nella città natale, guidata da ostetriche anch’esse Inuit. Il New York Times ha pubblicato questa lunga storia che offre importanti spunti di riflessione sulle politiche sanitarie legate alla maternità, come veicolo per tenere viva una comunità, a partire dal benessere delle sue donne. Il risultato è che, investendo in politiche locali, formando la gente del posto, gli output sanitari sono migliorati incredibilmente, mostrando oggi tassi di mortalità non peggiori rispetto al resto del paese.