Reblogged from Scienza in Rete
Qualche giorno fa raccontavamo i dati di OCSE che mostrano che l’Italia è al quinto posto a livello mondiale per numero di articoli scientifici nell’ambito del Machine Learnig: davanti a noi solo Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna e India. Eppure – si diceva – se guardiamo le classifiche sul numero di brevetti siamo molto lontani dalla vetta. In quanti lavorano nel settore del ML, al di là dell’ambito accademico?
Su questo punto qualche settimana fa Kaggle, un’azienda che opera nell’ambito della Data Science, ha pubblicato i risultati di un sondaggio condotto in molti paesi del mondo, riguardante lo stato dell’arte della forza lavoro in questo settore. Un totale di oltre 16 mila persone coinvolte formate nell’ambito del ML fra attualmente occupati e non, oltre 200 delle quali in Italia.
In media, chi lavora nel Machine Learning ha circa 30 anni, ma questo valore varia da paese a paese. Per esempio, il rispondente medio dall’India era di circa 9 anni più giovane del rispondente medio dall’Australia. In Italia la mediana è di 34 anni nel complesso, e di 29 anni per le donne, sebbene queste ultime siano decisamente sottorappresentate in termini numerici: solo 29 su 238 rispondenti italiani era donna.
La percentuale più alta degli intervistati ha conseguito un master, che corrisponde alla nostra laurea specialistica, ma quelli con i salari più alti (cioè oltre 150.000 dollari annui) in media sono quelli che hanno anche conseguito un dottorato.
A definirsi ricercatore o scienziato, è solo una piccola fetta del campione: circa il 18% degli italiani, e il 13% del totale, ma a ben vedere essi rappresentano il terzo gruppo per tipo di lavoro. La maggioranza di chi lavora nel ML si definisce Data Scientist (un quinto del totale in Italia); ci sono poi gli sviluppatori (14%) e a seguire – appunto – gli scienziati (13%, a cui si aggiunge un 5% di persone che si definiscono ricercatori). A chiudere la classifica i vecchi programmatori (meno del 3% dei 16 mila intervistati) e i data miner, che sono pochissimi: l’1% nel complesso e lo 0,6% degli intervistati italiani.