Per il Cammino di Benedetto. Da Casamari ad Arpino

Suonano le sette del mattino all’Abbazia di Casamari, il tempo delle lodi. Non saranno veramente lodi, poiché il 25 maggio è la festa patronale, e si fa messa solenne. Non avrei potuto fotografare la scena di questi monaci cistercensi in abito nero, alcuni bianco, che prendono posto nei loro scranni di legno scuro, in silenzio, per iniziare di lì a poco il canto. Gregoriano. Sarebbe stato come profanare il tutto. Mi chiedo se le parole non siano un’altrettanta profanazione; probabilmente sì: è il canto a bastare.

Qualche pennellata è sufficiente: la pietra chiara della chiesa gotica è dorata, complici le vetrate in alabastro. Mi viene in mente il famoso verso di Neruda «Nuda sei enorme e gialla come l’estate in una chiesa d’oro». La chiesa d’oro, dove l’oro non è il metallo che troveremo accecante a Montecassino, ma l’oro del Sole. La pietra d’oro. È stata costruita nel 1203, l’Abbazia di Casamari, all’epoca in cui per quegli Appennini girava Francesco d’Assisi. Stare lì, oggi, in questo consesso luminoso mi travolge.

Il monaco più anziano è incappucciato, e si siede all’organo, per supportare gli altri nell’intonazione. No, non penso al Nome della Rosa, penso piuttosto a Francesco, a Chiara, a chi ha fatto del canto una strada. Nel Nome della Rosa non canta nessuno, non c’è spazio per il Gregoriano, per la vibrazione della Gioia dell’Altezza. Chissà perché Eco non riesce a esprimere questa Bellezza ma solo altri aspetti, forse meno necessari. Ma chi sono io per giudicare le scelte di Umberto Eco. La pietra d’oro mi lascia quel misto di propulsione alla vita e turbamento. Uscire fra i papaveri rossi per incamminarsi verso Arpino è decisamente straniante. Il sole è battente, il grano giallo e il cielo blu, e io sono una pennellata nera del famoso quadro di Monet. Oggi la tappa sarà fisicamente più leggera, un buon bilanciamento rispetto al giorno prima: superiamo morbidamente cascine, pollai, filari.

Prima di Arpino dobbiamo passare per Isola del Liri, una cittadina nota per la sua cascatella nella piazza principale. Siamo prepotentemente a inizio Novecento: la centrale è idroelettrica, le pale palano, le turbine turbinano, le cascate cascano, i canneti cannano, e fabbriche fabbricano. I Normanni bevevano Calvados. Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.

Ci rifocilliamo con una pasta al pesce, e man mano che ci allontaniamo dal Centro con i suoi canaletti produttivi, ritorniamo in un passato più fermo. L’Abbazia di San Domenico di Sora (un Benedettino molto interessante vissuto nel X secolo e cui si intrecciano vicende fra Vico, Trisulti e Collepardo) ha una cripta meravigliosa, che possiamo gustare al buio. Nessuno aveva acceso le luci, probabilmente è poco visitata, e nessuno glielo ha chiesto. Fuori, uno spiazzo con un camioncino che vendeva fragole succose a poco prezzo. Sono seduta nella navata centrale quando incontro Cicerone. Di fatto siamo a casa sua, dato che l’Abbazia è stata costruita sopra i ruderi della sua villa natale. Sono certa fosse lui, anche se ha il volto di un simpatico settantenne con gli occhiali quadrati, e tiene in mano delle fotografie. Attende fremente il parroco per dargliele: a lui appartengono, d’altro canto, perché lo ritraggono durante la processione dei giorni passati. Sono certa fosse Cicerone in persona perché iniziamo una conversazione surreale a proposito di amici suoi – intendo di Cicerone – e dei vari imperatori della dinastia Giulio-Claudia, che solo in una famiglia o in una piazza di paese potrebbe verificarsi. Inizia con una serie di domande a raffica per testare se so chi veramente scriveva i testi a Cicerone in Senato, e mi snocciola una serie di pettegolezzi su Agrippina e sui suoi nipoti. È eccezionale. Con me, poi, cade bene perché ho fatto diversi esami di storia romana e letteratura latina all’università – per non parlare del fardello liceale – e il risultato è che sembra stiamo parlando di cronaca politica, come alle riunioni che facciamo giornalmente con i miei colleghi di Infodata, quando spettegoliamo sul ghostwriter di tal politico o sugli amanti di quell’altro.

Mi sono svegliata Cistercense e dopo pranzo sono già sdraiata su un triclinio a mangiare chicchi d’uva. Romana. La strada per Arpino si snoda salendo in mezzo alla campagna, fra vigneti, prati e piccole frazioni quasi disabitate che mi ricordano alcuni paesini delle mie parti. La salita a Collecarino è tosta ma è l’ultima della giornata. Tuttavia, il caldo è davvero afoso e faccio fatica. Non ci sono bar, supermercati, o fontanelle all’orizzonte. Ho imparato che nel sud Italia i negozi non hanno l’abitudine di aprire alle tre del pomeriggio come qui da noi, ma dopo le cinque; e considerate le temperature mi è piuttosto chiaro il motivo. «Guarda: due fontanelle!» esclamò d’un tratto la Fata Morgana. Mi avvicinai ed erano in realtà due picchetti di ferro per agganciare gli scuri. Bene, ma non benissimo! Ci rifocillammo in piazza ad Arpino, un dolce borgo che si inerpica sulla roccia.

Sono lì appoggiata al muro della cucina di Roberto, e lo guardo cucinare, anzi ‘spignattare’ – parola che rende molto meglio l’idea, quando lui si volge verso di me e mi avvicina il cucchiaio di legno con quello che scoprirò essere puré: «Manca sale?» mi chiede. «No, mi par bene». Questo gesto così spontaneo, bello, fra due persone che non si conoscono se non da un minuto e che non si sono rivolte altre parole in precedenza, è uno dei sensi del Cammino. Roberto è un ospitaliere che con la moglie Marina accoglie i pellegrini nella sua domus estiva, a donativo. Mi sento subito a casa: pasta fagioli e pancetta, polpette, puré e albicocche. vino e limoncello, ascoltando le storie di vita di Roberto, che mi riempiono di curiosità. Nella loro casa, a tanti chilometri dalla mia, ritrovo anche un pezzo della mia infanzia: la stessa stufetta per il bagno Vortice color tortora che avevamo a casa nostra a Longarone quando ero bambina per scaldare il bagno. Una volta c’erano meno cose. Forse rivedendola in foto anche qualcun altro si commuoverà come mi sono commossa io.

Mi viene da pensare che non solo chi cammina, ma anche chi vive l’ospitalità in questo modo, è una persona ‘da passato’. Non può essere altrimenti. Vengo a sapere infatti da Roberto che a Pieve Santo Stefano esiste un Archivio dei Diari, un’associazione dove è possibile depositare il proprio diario, o i propri scritti, in forma più o meno riservata, affinché rimangano come memoria comune. Per una persona proiettata nel passato come me è una Rivelazione.

Spero fra me e me che Cicerone non lo venga mai a sapere, che già ci ha fatto impazzire con quello che ci è pervenuto, ci mancano solo ulteriori diari.

NB. La citazione in corsivo è tratta dal romanzo I fiori blu, di Raymond Queneau (trad. Italo Calvino). Uno dei libri più geniali di sempre, se piace il genere.

La altre puntate del Cammino sono qui

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