Un aspetto che mi incuriosiva di questo viaggio antico, era la possibilità di percorrere tratti di vecchie strade, dogane, solcate dai mercati dell’Europa di ieri e segnate da nomi che ricordano indubbiamente i fasti di Roma. La zona di Trevi è la terra degli Equi, citati in tutti i libri di storia della prima liceo, che popolarono questa terra per secoli, prima di essere assoggettati all’Impero Romano. Treba Augusta, da Treba (trivio): crocevia fra tre importanti vie di comunicazione. Il cammino è – capiremo – anche un continuo crocevia. Come il giorno prima, partiamo per un lungo il sentiero che sale nel bosco per la ‘montagna’ Simbruina, dal latino sub imbribus, sotto le piogge, ma di piogge nel XXI secolo neanche l’ombra. Tutto questo latino ‘da strada’ mi mette di buon umore. Treba in realtà mi riporta alla mente qualcosa, ma sul momento non ricordo: troppo impegno fisico per salire i sassi fra afa e moscerini. Ora ho collegato: tripartizione e latino. Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. E come non rimembrare anche la celebre costruzione del ponte, che mi valse un altro votaccio: Tigna bina sesquipedalia. paulum ab imo praeacuta dimensa ad altitudinem fluminis intervallo pedum duorum inter se iungebat. So che tanti di voi ci sono passati, e il più delle volte è andata male.
Fra prati che costeggiano pascoli, dove i cancelli e le recinzioni continuano ad avere strutture che non ho mai visto, con fragili bastoncini tenuti insieme da filo spinato ciancicato e arrugginito, e fra vecchi silenziosi fontanili, scorgiamo i primi sassi dell’Arco di Trevi: 1000 metri di altitudine, l’antica dogana. È tutto verde d’intorno; vi sono solo un carretto, e più avanti in mezzo a una radura, un paio di persone, un adulto e un regazzì, che lavorano con un trattore. Sono radure operaie, di letame, tubi in ferro e qualche barile lasciati a bordo sentiero. La strada provinciale non è lontana, si sentono passare le poche auto. Palesemente si chiedono che cosa possa spingere due persone a girovagare per quelle zone di nulla, con lo zaino in spalla. Queste non sono zone incontaminate. Anche io talvolta mi trovo a pensarlo degli altri, di quelli che trovo a pedalare fra le aree meno favolose dei nostri paesi «ma se in mezz’ora saresti sul Pelmo, perché perdi tempo su questi sentieri!» Appena mi guizza in testa questo pensiero, già me ne vergogno. Cosa ne so io di cosa vedono gli altri.
Oggi il cammino è lungo, e prima di arrivare a Collepardo, dove ci aspetta Francesca, dobbiamo attraversare Guarcino e Vico nel Lazio. La parte fisicamente più impegnativa è arrivare da Trevi a Guarcino, sempre per il caldo, ma l’avvicinamento è a suo modo particolare, perché prevede di passare per quello che solo alla fine scopriremo essere un santuario en plein air, una via crucis per la precisione, da fare al contrario. Il motivo è semplice: ci si arriva da dietro, per delle carrarecce semi dismesse, passando per il letto morto di un torrente abbandonato. È la prima volta che mi capita di entrare in un luogo sacro dalla porta della serva, e forse è quello il modo più corretto per farlo. Non capiamo – appunto – subito che si tratta di un santuario, anche perché la sua estetica ricorda più quella di una turbina elettrica. Solo avvicinandoci circospetti all’edificio in mattoni rossi e ferrosi leggiamo un Monito su un cartello, sobrio quanto il monito stesso: OGNI OGGETTO HA VALORE ZERO, dice. Ellamadonna, esclamo con il fare colto di Renato Pozzetto. ‘Valore Zero’: anche la grammatica e la sintassi qui sono perfettamente coerenti con la scelta architettonica glabra. Nulla è fuori posto, e il monito si scolpisce nella mente, ma fatico a sentire il Sacro. Non è nelle mie risonanze.
Questo santuario dà sulla strada statale e dopo venti minuti di cammino entriamo a Guarcino. Non avevamo mangiato dalla mattina perché sono terre aspre senza negozi, ed è lunedì. L’unico luogo aperto è una pasticceria, e scopriamo che Guarcino è il paese degli amaretti… Rifocillati a dovere e cambiate le scarpe, il gestore ci dice che esiste anche una cripta dedicata a Benedetto, dove si dice che lui sia passato. «Bussate alla signora Cesarina, e lei vi darà la chiave». E allora suono a Cesarina, che mi apre non proprio gioiosa, dato l’orario e che prende questa enorme vecchia chiave e ci apre. Benedetto o non Benedetto, la cripta di fatto è sua, dato che lo stabile era della sua famiglia, e quindi siccome è sua, apre lei. Cesarina indossa il vestito delle anziane donne di tutti i paesi d’Italia da nord a sud: al travesòn. Mi diverte immaginare una Cesarina del 500 d.C. che si scoccia allo stesso modo per questo Benedetto che viene a bussare alla sua cripta alle quattro del pomeriggio. Ma lei gli fa strada, sempre col Travesòn.
Ci incamminiamo verso Vico, con una biscia che serenamente mi striscia fra i piedi che quasi dalla fatica della salita nella boscaglia non me ne accorgo, e raggiuntolo ci perdiamo fra le poesie. Letteralmente: il paesino è pieno di poesie su lastre di ceramica decorate. Ci sono gatti, persone che giocano a carte e che ci salutano, in questo piccolo borgo dalle 25 torri (!) e 5 porte d’accesso. Anticamente devono aver fatto più fatica di noi a farsi aprire. Una poesia di Clemente Rebora in particolare mi colpisce:
Qualunque cosa tu dica o faccia c’è un grido dentro: non è per questo, non è per questo! E così tutto rimanda a una segreta domanda e l’atto è un pretesto… Nell’imminenza di Dio la vita fa man bassa sulle riserve caduche, mentre ciascuno si afferra a un suo bene che gli grida: addio!
E così tutto rimanda a una segreta domanda e l’atto è un pretesto. Siamo ormai quasi a Collepardo, da Francesca. Abbiamo scelto due modi di vivere questo cammino: soggiornare, ove possibile, presso le antiche abbazie e i monasteri, oppure farci ospitare dalle famiglie. Gli antichi ‘ospitalieri’, insomma. Ad Arpino, Roberto ci terrà molto a questo appellativo, e lo incarnerà perfettamente. L’associazione che si prende cura del Cammino propone in ogni paese alcune famiglie che ospitano i pellegrini ‘a donativo’ cioè senza chiedere nulla, se non un’offerta.
Sedersi al tavolo della cucina di qualcuno è una modalità speciale di incontrare un luogo; forse – mi chiedo – è l’unica speranza. Essere davvero attesi in un posto ha qualcosa di particolare. Ci diamo appuntamento con Francesca davanti alla chiesa di Collepardo, che come suggerisce il nome sta su un colle. Un altro borgo di pietra pieno di archi e anfratti per scorgere i monti che lo circondano. È l’ultima salita della giornata, e Francesca mi appare come mi immagino essere l’ospitaliera di una novella di Boccaccio: sorridente, piena di premure, con una cucina piena di ciotole, barattoli e verdure con un caminetto rosso. Siamo già in sintonia al primo sguardo…poi quando entriamo nella sua casetta, che era dei suoi nonni e decidiamo di mangiare a casa, è fatta. Asparagi selvatici, uova della vicina, un bel formaggio locale, e le storie della casa e della famiglia di Francesca diventano ombre vive.
Scopro una Collepardo tutt’altro che ferma. Un po’ come i paesini, anche dalle mie parti: piccoli formicai che brulicano… e che di notte donano un senso di pace. Solo visti da fuori non ci si crede. Sento quella sensazione non sempre comune nei viaggi, di essere in un posto giusto con persone giuste.
Appena tornata, fatalità, trovo nel mirabile blog Monachesimo 2.0, una storia ambientata proprio a Collepardo. Tra luglio e settembre del 1929 Scipione, sempre malato, passa una breve estate felice in Ciociaria («Io sto alla “Trattoria della stella d’Italia a Collepardo [Frosinone]») e, raggiunto da Mario Mafai, va a visitare la Certosa di Trisulti, dove, salutato l’amico, rimane per qualche tempo: un soggiorno che lascerà una traccia non labile nei suoi ricordi e qualche testimonianza nei suoi olii e nei disegni.
Ahi, Trisulti! Che storia abbiamo da raccontare anche noi! La prossima puntata.



















