«L’oppio del popolo» di Goffredo Fofi

Ho finalmente finito quest’ultimo libro di Goffredo Fofi, L’oppio del popolo (Elèuthera editrice). Come sempre con Fofi mi viene spontaneo mettermi sulla difensiva, perché come chi lo conosce bene sa, Fofi è una cavolo di balestra. Ha la capacità di farmi sentire sempre una stupidotta, ed è per questo che lo cerco, anche se talvolta lo trovo esagerato.
Sarò strana, ma provo un certo piacere quando persone come Fofi mi fanno sentire una stupidotta, non tanto perché condivida ogni suo attacco alla contemporaneità tecnologica, ma perché penso che una revisione periodica delle cose che diamo per scontate anche nel lavoro, un ritirarci in basso, faccia bene al pensiero e all’azione.

foofu

Il libro è un attacco all’industria della cultura, e più nel dettaglio all’industria della comunicazione della cultura, che è l’alveo entro cui talvolta anche io mi muovo, e in cui vi muovete anche voi che siete nella mia bolla. Vogliamo arrivare a più persone possibile, che in tanti (un tanti più delle volte non quantificato, quindi non misurabile, quindi insoddisfacibile per natura) amino un quadro, un libro, una fotografia.
La tesi di Fofi è che alla comunicazione manchi il “noi”, che essa produca solo tante monadi, tanti io. I-o, i-o. Non c’è democrazia vera e propria nelle riviste letterarie, dice, nelle università e nel Sistema che produce scrittori di successo, e mica è colpa degli scrittori, spesso bravi. Il problema è che c’è tanto tanto tanto, e il tanto rende automi. Dice. Su questo per me ha ragione.

Non mi piacciono molto le generalizzazioni né le tesi a priori, e Fofi ne fa molte. “E se la cultura, in tutte le sue forme non radicali che non guardano all’origine dei mali e non ne cercano il rimedio, non fosse altro, oggi, che lo strumento privilegiato del demonio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?” (p.17). Il “contro” di Fofi è una cultura, una comunicazione, un’arte, che platonicamente si fondino sul perturbante invece che sull’intrattenere e sul dilettare.
Sul “dominio del potere” come vessillo impersonale sono sempre cauta. Ma la domanda che mi fa sentire una stupidotta è sempre questa: perché siamo così ossessionati dal comunicare la cultura? Io personalmente me lo chiedo spesso mentre lo faccio. Fofi, lucidamente e onestamente ci fa osservare che non c’è altra possibile prospettiva lucida e onesta sul nostro oggi che non sia nichilista. Abbiamo pisciato troppo fuori dal vaso, quel che è fatto è fatto. Non si torna indietro pacificamente. “Dalla tentazione del nichilismo ci si difende solo con un atto di sfida” scrive, e di ritorno alla cultura come politica pratica (da polis, bla bla). Quella per lui è radicalizzazione: non i dettami da agenzie internazionali, non le soluzioni pret a porter individuali. Certo, la prospettiva di Fofi non è evidence-based, bisogna dirlo. Non è una scienza sociale, la sua.
Ecco, per quanto l’abbia trovato un po’ stucchevole in diversi passaggi, una pit stop con Fofi è sempre un’ottima occasione per noi comunicatori per chiederci, ma in maniera costruttiva mentre progettiamo un piano editoriale: ma che caz stiamo a comunicà?

(Ditemi se l’espressione di Dora non riassume perfettamente il mio sbrodolo)

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