Per il cammino di Benedetto. Da Collepardo a Casamari

Per le campagne di Scifelli, verso le cinque del pomeriggio, una famiglia che raccoglieva olive scrutava con perplessità due camminatori esausti e felici che intonavano a gran voce Audite poverelle. Credo di aver addirittura alzato il bastoncino in modo imbarazzante scandendo al ritmo marziale «Non guardate alla vita fora, quella dello spirito è migliora».

Sarà che ci siamo persi due volte, la stanchezza di aver allungato una tappa che era già la più impegnativa, sarà che per riprendere la strada giusta abbiamo affrontato incertezze inattese, o che i paesaggi dei giorni successivi saranno molto diversi… Casamari è stata per me la metà della mèta: abbiamo camminato prima di Casamari e dopo Casamari. Giungere alla vibrante Abbazia all’imbrunire, con un monaco cistercense che ti attende sulla porta, è comunque un arrivo.

Quando ci rendiamo conto che avevamo imboccato la strada sbagliata già poco dopo usciti dalla porta di Collepardo, ci troviamo in un sentiero di ginestre non molto distante da Alatri, a più di due ore dalla parte opposta rispetto a dove avremmo dovuto essere, cioè alla Certosa di Trisulti. La colpa è nostra: abbiamo seguito sì delle B (il Cammino di Benedetto è segnato da delle B lungo il percorso, appese sugli alberi, dipinte sui sassi), ma rosse. Avevamo pensato che avessero cambiato la vernice, mentre evidentemente si trattava di un altro percorso. Le espressioni accigliate delle mucche mentre passavamo lungo quel sentiero pietroso avrebbero dovuto farci capire che lì non avremmo dovuto esserci, e invece l’uomo di oggi gli animali non li prende molto sul serio. Quando decidiamo di geolocalizzarci, sono, lo ammetto, momenti di panico: il sole è già alto e brucia.

Quel giorno mi sono resa conto di quanto devo alle persone che mi hanno educata alla montagna negli anni passati. La voglia di non perdere la visita a Trisulti – un’abbazia antica con una storia molto particolare – è battente. In quel momento, come nei cartoni animati, vedo ruotare intorno a me come angioletti buoni i volti di Silvio aka Camoscio Bianco, di Flavio, di Axel, di Yuri, e degli istruttori dei corsi CAI che ho frequentato, che con fare minaccioso mi ammoniscono: «Cristina! Cosa ti ho insegnato?! Quanto ti trovi in ritardo non devi pensare alla meta ma rimanere lucida: devi valutare il percorso, calcolare i tempi per arrivare alla meta in relazione alle tue risorse fisiche e alle riserve di acqua e cibo». Non eravamo certamente in una cordata verso l’Himalaya, ma non serve quel tipo di esperienza per comprendere l’intelligenza di questi insegnamenti. In montagna può capitare sempre l’imprevisto; anche in zone apparentemente tranquille l’errore di valutazione può avere risvolti tragici. Grossa parte dei recuperi del Soccorso Alpino in Dolomiti sono errori di valutazione, per lo più di persone inesperte. Mi hanno sempre insegnato che il grande alpinista, quello che torna vivo a casa, è colui che sa rinunciare.

Ritornare indietro e voler raggiungere Trisulti significherebbe allungare la tappa di almeno 6 km in sentieri di montagna sotto il sole, ritrovandosi a ripartire da Collepardo quattro ore dopo quella che sarebbe dovuta essere la vera partenza, per arrivare a Casamari, se fossimo stati in piena forma, e senza ulteriori imprevisti, dopo cena. Una follia, anche perché la persona con me aveva già un piccolo problema al polpaccio, e avevamo altri quattro giorni di cammino davanti a noi. Cerchiamo sulla mappa se c’è un sentiero che da lì ci permetta di arrivare al borgo successivo a Trisulti, Civita. È un’incognita, ma zaino in spalla, partiamo. Quel giorno ci saremmo persi di nuovo.

Furono due ore letteralmente di fuoco; una salita costante su sentiero pietroso bianco: sole e caldo da ogni lato. In cammino – ci avevano detto – sperimenterete lo scoramento, di non poter sbattere la porta e andare in un’altra stanza quando non ci trova d’accordo, e che cosa significa affrontare un imprevisto con le vostre risorse, che in montagna sono quattro: gambe, fiato, cuore, testa. La vecchia signora che ci viene incontro dalle poche case abbarbicate fra i pascoli appena ci incamminiamo, ci dice di stare tranquilli, che quella strada ci avrebbe portato a Civita, ma che «stava un po’ rotta». Per la prima volta siamo davvero all’avventura, seppur con GPS. Senza le B lungo il percorso che danno sicurezza al viandante, camminiamo per le ore successive quasi in silenzio, con il timore non espresso che non sbucassimo proprio a Civita. Invece no: mai diffidare della saggezza delle anziane! Magari accade come con la strega de La Bella e la Bestia, penso. Arrivammo effettivamente nel borgo di Civita, poche case silenti di pietra, senza l’ombra di un negozio o di un bar, né di una persona viva. Solo una fontanella fresca. Siamo accolti da un simpatico cane da guardia libero per la strada che prende ad abbaiarci inseguendoci, costringendoci a circumnavigare il borgo. La presenza dei cani completamente liberi, dei cancelli delle case sempre aperti, anche nei paesi non lontano da strade trafficate, mi sconcertano, oltre a farci prendere qualche spavento lungo il cammino. Il giorno prima, poco dopo l’arco di Trevi mi sono ritrovata accovacciata dietro un albero per dedicarmi all’arte del deflusso di liquidi, con una grossa mucca che mi fissava da dietro un cespuglio, e dietro a lei un Maremmano libero che cercava di capire che cosa fosse quella cosa a palla accucciata a terra con una propaggine gialla sulle spalle. Meno male ho i riflessi ancora buoni. Penso a chi davvero nei secoli passati affrontava percorsi come la via della Seta, e mi sento un po’ un’idiota.

Ritrovando la vera b per la strada, riprendiamo di nuovo il bosco, e poi un castagneto, e i soliti cancelli di bastonicini e filo spinato, che però non riusciamo ad aprire. E quindi di nuovo pancia a terra stile marines sotto il filo spinato che correva a 40 centimetri da terra. Il verde tuttavia mi sembra più verde, i nostri animi si sono rasserenati, anche se sappiamo di essere in ritardo rispetto a quanto preventivato. Mi tornano in mente le parole di Flavio: «Quando ti sembrerà di andare troppo piano, rallenta». Un’altra cosa che si impara è effettivamente che, fatto salvo non fare stupidaggini, devi lasciare a casa il bisogno di controllare tutto, che invece pare rappresentare una skill ineludibile per il successo della vita di oggi. L’arrivo un po’ più tardi a Casamari con il monaco che ci aspetta sulla soglia per andare a vespri, sarà magnifico.

È lì che convinti di poterci finalmente rilassare, ci perdiamo di nuovo. Siamo affamati e stanchi, ma neanche a Santa Maria Amaseno ci sono locali, negozi, persone. Lo sconforto ricomincia a fare capolino e va tenuto a bada con qualche risata e immaginando le comiche. Per la strada provinciale effettivamente un bar lo troviamo, anch’esso deserto. Una barista gentilissima ci rifocilla con le uniche cose che ha: succo di frutta, patatine e un gelato, e ci consiglia di tagliare per Scifelli, il suo paese di origine, cosa che faremo non senza tentennamenti. Mentre siamo lì seduti su un pallet, ci racconta poi che qualche giorno prima era arrivata una comitiva di ‘pellegrini’ che percorreva il Cammino di Benedetto con un pulman che portava loro gli zaini e che in ogni tappa li aspettava con una tavola imbandita di panini, bibite e dolci. La scena mi sembra talmente fuori contesto che me la immagino come Il tesoro dei tre fratelli, di Ludwig Bechstein, una storia che mi raccontava sempre mia mamma da bambina, con il Lungo che all’occorrenza estraeva il suo dono e diceva: «Tavolino, apparecchiati.» L’istinto di pensare, con il Grullo, «Randello, esci dal sacco!» c’è, ma so che devo anche lasciare a casa il bisogno di pontificare ad altri su come si dovrebbe fare un Cammino oggi.

È a questo punto della storia che la famiglia che raccoglie olive nelle campagne di Scifelli incontra i due folli che cantano Audite poverelle con i bastoncini al cielo.

Verso le sei di sera entriamo all’Abbazia cistercense di Casamari, che si trova all’inizio del paese, in una zona infelice dal punto di vista del traffico. Quasi non la noti, finché non passi la volta in pietra; e allora anche un cieco, vede. Ci accoglie da lontano il monaco in abito nero (da cistercense), che ci mostra la nostra stanza e ci invita la mattina dopo alle sette, per le lodi insieme a loro, in gregoriano.

Chiaramente accettiamo. Credo di aver intrapreso il cammino per momenti come questo.

Le altre tappe del Cammino sono qui.

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Per il Cammino di Benedetto. Da Trevi nel Lazio a Collepardo

Un aspetto che mi incuriosiva di questo viaggio antico, era la possibilità di percorrere tratti di vecchie strade, dogane, solcate dai mercati dell’Europa di ieri e segnate da nomi che ricordano indubbiamente i fasti di Roma. La zona di Trevi è la terra degli Equi, citati in tutti i libri di storia della prima liceo, che popolarono questa terra per secoli, prima di essere assoggettati all’Impero Romano. Treba Augusta, da Treba (trivio): crocevia fra tre importanti vie di comunicazione. Il cammino è – capiremo – anche un continuo crocevia. Come il giorno prima, partiamo per un lungo il sentiero che sale nel bosco per la ‘montagna’ Simbruina, dal latino sub imbribus, sotto le piogge, ma di piogge nel XXI secolo neanche l’ombra. Tutto questo latino ‘da strada’ mi mette di buon umore. Treba in realtà mi riporta alla mente qualcosa, ma sul momento non ricordo: troppo impegno fisico per salire i sassi fra afa e moscerini. Ora ho collegato: tripartizione e latino. Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. E come non rimembrare anche la celebre costruzione del ponte, che mi valse un altro votaccio: Tigna bina sesquipedalia. paulum ab imo praeacuta dimensa ad altitudinem fluminis intervallo pedum duorum inter se iungebat. So che tanti di voi ci sono passati, e il più delle volte è andata male.

Fra prati che costeggiano pascoli, dove i cancelli e le recinzioni continuano ad avere strutture che non ho mai visto, con fragili bastoncini tenuti insieme da filo spinato ciancicato e arrugginito, e fra vecchi silenziosi fontanili, scorgiamo i primi sassi dell’Arco di Trevi: 1000 metri di altitudine, l’antica dogana. È tutto verde d’intorno; vi sono solo un carretto, e più avanti in mezzo a una radura, un paio di persone, un adulto e un regazzì, che lavorano con un trattore. Sono radure operaie, di letame, tubi in ferro e qualche barile lasciati a bordo sentiero. La strada provinciale non è lontana, si sentono passare le poche auto. Palesemente si chiedono che cosa possa spingere due persone a girovagare per quelle zone di nulla, con lo zaino in spalla. Queste non sono zone incontaminate. Anche io talvolta mi trovo a pensarlo degli altri, di quelli che trovo a pedalare fra le aree meno favolose dei nostri paesi «ma se in mezz’ora saresti sul Pelmo, perché perdi tempo su questi sentieri!» Appena mi guizza in testa questo pensiero, già me ne vergogno. Cosa ne so io di cosa vedono gli altri.

Oggi il cammino è lungo, e prima di arrivare a Collepardo, dove ci aspetta Francesca, dobbiamo attraversare Guarcino e Vico nel Lazio. La parte fisicamente più impegnativa è arrivare da Trevi a Guarcino, sempre per il caldo, ma l’avvicinamento è a suo modo particolare, perché prevede di passare per quello che solo alla fine scopriremo essere un santuario en plein air, una via crucis per la precisione, da fare al contrario. Il motivo è semplice: ci si arriva da dietro, per delle carrarecce semi dismesse, passando per il letto morto di un torrente abbandonato. È la prima volta che mi capita di entrare in un luogo sacro dalla porta della serva, e forse è quello il modo più corretto per farlo. Non capiamo – appunto – subito che si tratta di un santuario, anche perché la sua estetica ricorda più quella di una turbina elettrica. Solo avvicinandoci circospetti all’edificio in mattoni rossi e ferrosi leggiamo un Monito su un cartello, sobrio quanto il monito stesso: OGNI OGGETTO HA VALORE ZERO, dice. Ellamadonna, esclamo con il fare colto di Renato Pozzetto. ‘Valore Zero’: anche la grammatica e la sintassi qui sono perfettamente coerenti con la scelta architettonica glabra. Nulla è fuori posto, e il monito si scolpisce nella mente, ma fatico a sentire il Sacro. Non è nelle mie risonanze.

Questo santuario dà sulla strada statale e dopo venti minuti di cammino entriamo a Guarcino. Non avevamo mangiato dalla mattina perché sono terre aspre senza negozi, ed è lunedì. L’unico luogo aperto è una pasticceria, e scopriamo che Guarcino è il paese degli amaretti… Rifocillati a dovere e cambiate le scarpe, il gestore ci dice che esiste anche una cripta dedicata a Benedetto, dove si dice che lui sia passato. «Bussate alla signora Cesarina, e lei vi darà la chiave». E allora suono a Cesarina, che mi apre non proprio gioiosa, dato l’orario e che prende questa enorme vecchia chiave e ci apre. Benedetto o non Benedetto, la cripta di fatto è sua, dato che lo stabile era della sua famiglia, e quindi siccome è sua, apre lei. Cesarina indossa il vestito delle anziane donne di tutti i paesi d’Italia da nord a sud: al travesòn. Mi diverte immaginare una Cesarina del 500 d.C. che si scoccia allo stesso modo per questo Benedetto che viene a bussare alla sua cripta alle quattro del pomeriggio. Ma lei gli fa strada, sempre col Travesòn.

Ci incamminiamo verso Vico, con una biscia che serenamente mi striscia fra i piedi che quasi dalla fatica della salita nella boscaglia non me ne accorgo, e raggiuntolo ci perdiamo fra le poesie. Letteralmente: il paesino è pieno di poesie su lastre di ceramica decorate. Ci sono gatti, persone che giocano a carte e che ci salutano, in questo piccolo borgo dalle 25 torri (!) e 5 porte d’accesso. Anticamente devono aver fatto più fatica di noi a farsi aprire. Una poesia di Clemente Rebora in particolare mi colpisce:

Qualunque cosa tu dica o faccia c’è un grido dentro: non è per questo, non è per questo! E così tutto rimanda a una segreta domanda e l’atto è un pretesto… Nell’imminenza di Dio la vita fa man bassa sulle riserve caduche, mentre ciascuno si afferra a un suo bene che gli grida: addio!

E così tutto rimanda a una segreta domanda e l’atto è un pretesto. Siamo ormai quasi a Collepardo, da Francesca. Abbiamo scelto due modi di vivere questo cammino: soggiornare, ove possibile, presso le antiche abbazie e i monasteri, oppure farci ospitare dalle famiglie. Gli antichi ‘ospitalieri’, insomma. Ad Arpino, Roberto ci terrà molto a questo appellativo, e lo incarnerà perfettamente. L’associazione che si prende cura del Cammino propone in ogni paese alcune famiglie che ospitano i pellegrini ‘a donativo’ cioè senza chiedere nulla, se non un’offerta.

Sedersi al tavolo della cucina di qualcuno è una modalità speciale di incontrare un luogo; forse – mi chiedo – è l’unica speranza. Essere davvero attesi in un posto ha qualcosa di particolare. Ci diamo appuntamento con Francesca davanti alla chiesa di Collepardo, che come suggerisce il nome sta su un colle. Un altro borgo di pietra pieno di archi e anfratti per scorgere i monti che lo circondano. È l’ultima salita della giornata, e Francesca mi appare come mi immagino essere l’ospitaliera di una novella di Boccaccio: sorridente, piena di premure, con una cucina piena di ciotole, barattoli e verdure con un caminetto rosso. Siamo già in sintonia al primo sguardo…poi quando entriamo nella sua casetta, che era dei suoi nonni e decidiamo di mangiare a casa, è fatta. Asparagi selvatici, uova della vicina, un bel formaggio locale, e le storie della casa e della famiglia di Francesca diventano ombre vive.

Scopro una Collepardo tutt’altro che ferma. Un po’ come i paesini, anche dalle mie parti: piccoli formicai che brulicano… e che di notte donano un senso di pace. Solo visti da fuori non ci si crede. Sento quella sensazione non sempre comune nei viaggi, di essere in un posto giusto con persone giuste.

Appena tornata, fatalità, trovo nel mirabile blog Monachesimo 2.0, una storia ambientata proprio a Collepardo. Tra luglio e settembre del 1929 Scipione, sempre malato, passa una breve estate felice in Ciociaria («Io sto alla “Trattoria della stella d’Italia a Collepardo [Frosinone]») e, raggiunto da Mario Mafai, va a visitare la Certosa di Trisulti, dove, salutato l’amico, rimane per qualche tempo: un soggiorno che lascerà una traccia non labile nei suoi ricordi e qualche testimonianza nei suoi olii e nei disegni.

Ahi, Trisulti! Che storia abbiamo da raccontare anche noi! La prossima puntata.

Le altre tappe del Cammino sono qui.

Per il Cammino di Benedetto. Da Subiaco a Trevi nel Lazio

«Quando ti sembrerà di andare troppo piano, rallenta». Con questo saggio consiglio, Flavio, alpinista e ormai esperto di cammini, mi aveva ammonita poco prima della partenza. Se non è stato sempre possibile rallentare il passo della gamba, date le distanze non banali in alcuni tratti montani da coprire in un certo tempo sotto un sole afoso, è stato quasi sempre possibile rallentare il passo del pensiero, che è il tipo di fretta che più ci affossa.

Questi sette giorni di cammino a piedi da Subiaco a Montecassino, passando per alcune delle Abbazie e Certose più antiche e custodenti del medioevo italico, sono stati per me un’esperienza diversa dal genere di percorsi – c’è chi li chiama Trekking, ma a me questa parola non piace – che sono solita fare in montagna, anche per più giorni, fra i rifugi delle mie Dolomiti. 

Scopro che i paesaggi naturali centro-meridionali sono da un lato tutto sommato vicini ai paesi che attraversano, e alle cittadine – spesso affatto piccole, più grandi dei nostri paesini montani – ma al contempo possono essere molto ‘lontani’ dal nostro tempo. O forse sono io che ho vissuto una settimana con il telefono per lo più in modalità aereo, donando a me stessa il ritmo di una vita lontana…

Abbiamo riso parecchio i primi giorni di cammino, fra sentieri antichi, prati, pascoli e boscaglia, per l’affinità di sentirci dentro le scene di Non ci resta che piangere, il famoso film di Roberto Benigni e Massimo Troisi, del 1984. Tutti ricorderanno la famosa scena in cui dopo un temporale in cui si erano riparati sotto una quercia in mezzo alla campagna, Saverio e Mario si ritrovano persi, e chiedono aiuto a un passante. La faccia dei due Grandi è indimenticabile, quando questo contadino dice candidamente loro che si trovano a Frittole, nel 1400 «Anzi, quasi 1500». Quante volte abbiamo immaginato camminando in mezzo ai pascoli senza anima viva, superando cancelli che potevano benissimo risalire a secoli fa, di bussare alla porta di una cascina e sentirci rispondere «Eh, Frittole, quasi 1500! E la macelleria?!?». Questa sensazione di spaesamento è stata diversa dallo spaesamento che provo quando vado in montagna sulle Dolomiti. Piano piano capirò il perché, credo.

I monasteri benedettini di Subiaco sono luoghi dall’umile potenza. Si respira il silenzio delle pietre e dei colori, ed è come se ancora prima di iniziare a camminare, solo stando lì, in realtà avessi già camminato. Sei un ‘pellegrino’ prima ancora di cominciare. I tanti libri letti, la storia studiata all’università e anche dopo, e soprattutto i romanzi storici ambientati nel Medioevo e nella prima età Moderna, hanno delineato in me un immaginario relativo al pellegrino, che fatico a tenere a bada. Eppure mi rendo conto che dovrei liberarmi da questa tara. Il cammino, mi spiegano, è fatto anche per scaricare i fardelli e per procedere con meno aspettative possibile. Non siamo pellegrini del 1.100, proverò a ricordare a me stessa in varie occasioni in questi giorni; siamo tuttavia pellegrini oggi: bisogna solo capire che cosa significa.

Dopo una serata rifocillante con la pastasciuttona dei monaci, la mattina presto arrivo al Sacro Speco con un ricordo familiare. Abbiamo una fotografia a casa, risalente all’estate del 1971, con mia mamma bambina in posa davanti alla porta del Santuario e mia nonna accanto incinta di mio zio. Appena arrivo mi faccio una foto esattamente nello stesso punto con la medesima posa, e gliela mando.

Un cammino per i luoghi Benedettini non può non passare da qui (il Cammino inizierebbe a Norcia, ma noi non potevamo prenderci due settimane). È il luogo in cui il giovane Benedetto (480 circa – 547), trascorse un periodo di eremitaggio, prima di dedicarsi alla vita cenobitica e fondare la Regola che disegnerà l’Europa, per citare Paolo Rumiz. Il santuario, già di per sé un luogo incredibile costruito nella e sulla roccia, pieno di affreschi antichi e casa di alcuni fra i manoscritti più significativi della storia dei Benedettini, custodisce la grotta in cui Benedetto visse nell’anonimato per tre anni. Mi ritrovo a pensare, come mi capita spesso, a quante cose hanno visto quelle pietre e quegli affreschi. Mi colpiscono i ‘graffiti’ lasciati sulle pitture antiche dai ‘ragazzacci’ di duecento anni fa: giovani in visita allo Speco che – come oggi i nostri writers – vollero lasciare la loro firma accanto all’anno in cui avevano messo piede in quel luogo sacro. Sinceramente non mi viene di arrabbiarmi con questi nostri predecessori, sebbene per noi oggi rappresenti uno dei più scandalosi e impensabili vandalismi. Scoprire le loro allegre firme e note ottocentesche sui mantelli di Benedetto dipinti centinaia di anni prima, è vertigine nella vertigine.

Partiamo per la prima meta – Trevi nel Lazio – immersi in una natura verde e morbida, con il rumore dell’acqua che ci accompagna, tipico della Valle del fiume Aniene. In 140 chilometri di cammino che faremo, incontreremo paesaggi molto diversi, e la lentezza con cui si procede a piedi – che mi ritrovo a pensare sia la vera distanza, e i piedi la vera misura delle cose – permette di dilatare l’esperienza in modo inatteso. In treno, tornando a casa sette giorni dopo, mi sembrerà di essere stata via non sette giorni, ma sette mesi. 

È la tappa tutto sommato più semplice e rilassante del cammino: i segnali sono facili da trovare, il dislivello è tranquillo, e ci sono ancora pochi animali in giro. Si è poi freschi: la difficoltà di camminare molti giorni – e vale anche in montagna – è l’accumulo di stanchezza, di eventuali dolori alle gambe o alle spalle per il peso dello zaino… Non ci si improvvisa camminatori: quanto ho imparato io le prime volte che iniziavo ad andare in montagna, su come si prepara uno zaino! Questa esperienza mi ha ribadito l’importanza delle tre accortezze che ho appreso nel tempo: scarpa di ricambio degli scarponi per i tratti asfaltati o o sentieri semplici, per rilassare la schiena e i piedi, Camel bag, e bastonicini. Oltre a uno zaino che non pesi più del 10% del nostro peso. Questi tre elementi, (chiaramente uniti all’essere allenati a percorrere 25 km al giorno con dislivelli positivi di almeno 700 metri) hanno fatto sì che non abbia mai sofferto durante il cammino, se non il caldo dovuto agli oltre 30 gradi anomali a quelle altitudini per maggio, e sia tornata a casa senza dolori o affaticamenti.

Dopo pascoli e ampi prati ricchi di fiori coloratissimi, rifocillati da un super panino alla porchetta alle erbe fatta in casa, superando indenni cancelli con il filo spinato, che scopriremo essere la norma in questa zona – arriviamo a Trevi da monte, in una vecchia mulattiera. Intravediamo il paese fra le foglie come deve essere capitato a tanti nostri predecessori. Da lontano non si vedono auto, o antenne. Sono le cinque, e suonano le campane proprio mentre entriamo in città. Una bella casetta in pietra al Colle Mordani e una birra fresca “battezzano” il nostro Cammino; c’è una partita di calcio, e molti sono accorsi a tifare.

La contemporaneità non la puoi lasciare fuori, ed è una delle prime aspettative da eliminare. Mi trovo a pensare che forse il gioco è proprio il continuo viaggio ‘nel tempo’ fra ciò che era, ciò che è e ciò che è sempre. 

Questi pensieri non hanno certo l’obiettivo di essere una guida al Cammino. Noi ci siamo affidati alla guida ufficiale di Simone Frignani. La trovate qui. Questo invece il sito web del Cammino di Benedetto con tutte le informazioni.

Le altre tappe sono qui.

Il varco è qui?

La sensazione è quella della piccola epifania. A un tratto senti che qualche cosa – un tratto scritto, disegnato, vibrato di suono – esprime il nocciolo della faccenda. Come con I Limoni di Eugenio Montale: Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo dei cuore si sfa / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità (Ossi di seppia, 1925)

Musicalmente accade qualcosa di simile (almeno ai miei piccoli orecchi) durante l’apertura de La Moldava di Bedřich Smetana, il primo minuto e mezzo, prima della melodia ormai famosa. Si chiudono gli occhi e si vedono uccellini svolazzare, si sente l’acqua della Moldava scorrere imperiosa anche se la luce è ancora debole. È mattina presto e ci sono ancora alcune lucciole, e foglioline che svolazzano al vento prima di posarsi. Chiarissimo.

In questi giorni ho letto un libro illuminante: Akedia. Il male oscuro, scritto da Gabriel Bunge (Qiqajon, 1999), e lascio a chi legge andare a scoprire chi è. L’akedia è l’accidia, il male del nostro tempo, quella che oggi chiamiamo depressione e che gli antichi chiamavano Acedia, appunto, il demone del Mezzogiorno, l’atonia, l’asfissia, il vicolo cieco dell’anima, quella che a lungo andare porta al suicidio, effettivo o no che sia. Bunge descrive nel dettaglio questa condizione moderna ‘utilizzando’ la saggezza di un maestro greco tardoantico, che l’aveva già dipinta perfettamente (per chi è un pochino addentro questi temi, si tratta di Evagrio Pontico), e che offre interessanti rimedi. Rileva Bunge che forse aver smesso di personificare il Male non è stata proprio una grande idea. «Per il male o l’imperfezione non si dà perdono, perché solo una persona può perdonare un’altra persona. Ci sarebbe parecchio da dire sulle ragioni profonde di questa crescente incapacità a riconoscere il male come potenza Personale [ocio: con la P maiuscola! ndr], che tuttavia certi spiriti illuminati ritengono costituisca un grande progresso, anzi un’autentica liberazione.» Lascio a chi avrà voglia di approfondire, il piacere della scoperta di queste pagine.

Ieri sera un caro amico, acquarellista di Carnets de voyage, Fausto Tormen, ha presentato al Museo della Pietra e degli Scalpellini di Castellavazzo, il mio paesello, il suo nuovo libro “Belluno e le sue pietre” (De Bastiani Editore). Il suo viaggio fra la storia delle pietre, appunto, antiche che si incontrano nel centro della nostro Capoluogo Splendente. La provincia di Belluno – che oggi per molti miopi è solo ‘le montagne di Venezia’, auspicando nuove modalità di turismo mordi, inquina e fuggi senza aver visto nulla della storia sopra la quale si cammina – ha invece rappresentato per secoli un punto nevralgico del mercato internazionale, per la pietra (anche di Castellavazzo), così come per le spade. Altro che sauna deluxe di fronte alle Tre Cime.

La delicatezza e la pazienza con cui Fausto traccia le sue storie acquerelliche attraggono. Attrae anche Fausto: un perito, poi bancario, che autonomamente seguendo i suoi Limoni ha coltivato il suo dono in tanti anni, attraversando diverse fasi seguendo ciò che sentiva per esprimersi con spontaneità; e saranno gli altri, semmai, a chiamarmi artista. C’è molto da imparare da persone come Fausto, che ci ricordano che la fretta di definirci che abbiamo oggi non ha molto senso. Mi riferisco all’esigenza di scrivere la nostra “bio” perfetta sui social che ci dipinga completamente, all’ansia che la nostra definizione passi per il fatto di essere pagati per fare proprio quello (aspetto che meriterebbe, invero, una più ampia riflessione, poiché non banale come forse sembra dalle mie parole).

Dopo la presentazione si parlava con un paio di persone del grande dono che è avere dentro qualcosa da esprimere e aver chiaro qual è il proprio strumento maieutico. Viene da invidiare Fausto, il quale ha imparato a disegnare grazie a un corso per corrispondenza (altro che video tutorial!). Senza dubbio si tratta di un dono. Ma, come umilmente e sapientemente ricorda lui stesso – e io l’ho potuto ascoltare in diverse occasioni – bisogna “lavorar”: allenarsi, tanto. Tracciare il solco con pazienza. Mi piace molto questa idea che tutti possano trovare il proprio modo per esprimersi, ma che il punto di partenza sia sempre una spinta intima indescrivibile. Perché una macchina fotografica, perché la scrittura, perché i versi, perché il violino, perché il pianoforte, perché la creta, perché la montagna? Per i Limoni.

Sempre ieri sera, prima della presentazione di Fausto, a Longarone è stato presentato Monti di Longarone (Fondazione Angelini, 2021), di Pietro Sommavilla, Giuseppe Nart e Luca Celi, un’opera stupenda che raccoglie tutti i sentieri del comune di Longarone, spiegandone il significato storico, prima di tutto. Sommavilla, oggi 80 enne, figura di primo piano dell’alpinismo bellunese, ha ripercorso davanti ad amici e sconosciuti il suo perché di una vita in cammino per questa montagna, così ‘secondaria’. La risposta è sotto in nostri occhi: perché la geografia da sola senza la storia non ha lo stesso sapore. E allora via con i racconti di come l’orografia di Longarone ha svolto un ruolo predominante nella Storia dell’Austria e della Repubblica Veneta nei secoli passati. Ma il passaggio più interessante è stato quando parlando di un amico particolarmente dotato in montagna l’autore ricordava quando inventava di dover prendere appunti sulle quote per avere una scusa per fermarsi e riprendere fiato. «Lui è una Ferrari, e io una Panda!» Eppure, che cosa importa la prestazione personale, l’essere i primi? Proprio niente signor Pietro, ha ragione. Conta ciò che ci manda avanti, conta ancora il giallo dei Limoni.

Allenarsi per vivere la Bellezza di trovare il proprio Varco, e la bellezza dell’allenamento stesso ad avere i pori belli aperti per captare tracce del proprio strumento espressivo: alla fine credo si tratti di questo. Mi ricorda sempre l’amato Montale:

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende …)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

(Le occasioni, 1939)